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«Lo so, George. Ho soltanto la sensazione che siamo bloccati. Ci spacchiamo la testa, ma non riusciamo a capire perché gli animali sono impazziti.»

«E credi che la vostra scienza non possa andare oltre?»

«In un certo senso, sì.»

Frank scosse la testa. «Non è così. La scienza è una cosa meravigliosa, permette agli uomini di fare cose incredibili. Il problema è il punto di vista. Cosa guardi quando applichi il tuo sapere? Guardi la balena che è cambiata. Non riconosci più la tua amica. Come mai? È diventata una nemica. Che cosa l'ha spinta? Le hai fatto qualcosa? O l'hai fatto al suo mondo? Ma in quale mondo vive una balena? Tu cerchi un danno che le è stato arrecato e ne trovi tanti: i diboscamenti demenziali, le acque inquinate, il turismo spinto all'eccesso, l'avvelenamento del cibo degli animali e lo scompiglio prodotto nel loro mondo dal rumore che noi facciamo. Abbiamo preso possesso dei luoghi in cui fanno crescere i loro piccoli. Nella Bassa California non è stato costruito un impianto per ottenere il sale?»

Anawak annuì, cupo. Nel 1993, l'UNESCO aveva dichiarato la laguna di San Ignacio patrimonio naturale dell'umanità. Era l'ultimo luogo ancora intatto del Pacifico in cui si riproducevano le balene grigie e altre specie di animali e vegetali sull'orlo dell'estinzione. A dispetto di tutto ciò, la Mitsubishi aveva costruito un impianto di desalinizzazione. In futuro avrebbe pompato dalla laguna ventimila litri d'acqua al secondo, che sarebbero rifluiti in piscine di essiccazione grandi più di cento miglia quadrate. L'acqua sarebbe rientrata nella laguna come acqua di scarico. Nessuno sapeva quale effetto avrebbe avuto sulle balene. Moltissimi ricercatori, attivisti e premi Nobel avevano protestato contro l'impianto, che minacciava di diventare un pericoloso precedente.

«Vedi, questo è il mondo delle balene come tu lo conosci», continuò Frank. «Esse ci vivono dentro, ma questo mondo è solo una catena di circostanze con cui le balene possono sentirsi a proprio agio oppure no. Forse il problema non sono le balene, Leon. Forse le balene sono soltanto la parte del problema che ci è concesso vedere.»

Acquario di Vancouver

Mentre Anawak ascoltava le parole del taayii hawil, John Ford ormai ci vedeva doppio.

Doveva controllare due monitor, e lo stava facendo da ore. Il primo mostrava le immagini del nastro magnetico su cui erano raccolte le riprese effettuate dall'URA di Lucy e delle altre balene grigie; il secondo mostrava uno spazio virtuale, una struttura di coordinate a linee in cui brillavano dozzine di luci verdi. Indicavano il banco e cambiavano continuamente posizione. Immediatamente dopo il suo ammaraggio, il robot era riuscito a stabilire un rapporto tra il disegno delle pinne caudali di Lucy e gli specifici suoni che la balena emetteva, per poter localizzare l'animale e determinare la sua posizione, che ora appariva come un punto nello spazio delle coordinate. Non avrebbe perso Lucy neppure nelle tenebre più profonde.

Sul secondo monitor scorrevano anche i dati della sonda ancora infilata nel grasso della balena: frequenza cardiaca, profondità d'immersione, dati di posizione, temperatura e misura della pressione. La sonda e l'URA offrivano un quadro completo di quello che era successo a Lucy nelle ultime ventiquattr'ore. Ventiquattr'ore nella vita di una balena impazzita.

All'interpretazione dei dati, nel laboratorio, lavoravano quattro persone. Ford e due aiutanti erano seduti nella penombra, i visi illuminati dai monitor. Il quarto posto era vuoto. Un innocuo virus gastrico aveva ridotto il team e l'aveva costretto a un turno di notte.

Senza togliere gli occhi dal monitor, Ford si allungò di lato e s'infilò in bocca una manciata di patate fritte ormai fredde, prendendole da una contenitore di cartone.

Lucy non sembrava pazza.

Nelle ore precedenti, aveva fatto quello che di solito facevano le balene quando vagavano nell'oceano. Aveva mangiato in compagnia di una dozzina di suoi simili adulti e di due ancora giovani. Ogni volta che, tra cortine di alghe, andava sul fondo e smuoveva il limo sabbioso per filtrare vermi e granchi sollevava gigantesche masse di fango. Si era girata su un fianco e, con la sottile testa arcuata, aveva scavato veri e propri solchi. All'inizio, Ford era rimasto affascinato a guardare il monitor, benché non fosse la prima volta che vedeva riprese di balene grigie intente a mangiare. Tuttavia l'URA forniva immagini totalmente nuove, perché seguiva le balene come se facesse parte del branco. Molte balene si riconoscevano chiaramente. Per vedere un capodoglio mangiare era necessario scendere negli abissi, ma le balene grigie preferivano le acque più basse. Così, ormai da ore, Ford osservava quelle immagini, in cui si alternavano continuamente luce e semioscurità. Per qualche minuto, Lucy riemerse in superficie, spinse il fango attraverso i fanoni, aspirò l'aria a pieni polmoni, la buttò fuori e s'immerse. Era sempre stata abbastanza vicina alla riva, tanto che la maggior parte delle riprese non era stata fatta a più di trenta metri di profondità.

Ford guardava i corpi marmorizzati e coperti di cicatrici strisciare tra i sedimenti. L'acqua s'intorbidiva. Il robot non aveva difficoltà a seguire gli animali, perché essi rimanevano in zona. Cambiavano continuamente direzione, qualche metro da una parte, un breve tratto dall'altra, emergevano, s'immergevano, mangiavano, emergevano, s'immergevano. Ford diceva spesso che Vancouver Island era un autogrill in cui le balene gironzolavano pigramente. E in effetti la definizione era azzeccata. Emergere, immergersi, mangiare.

Ford cominciava ad annoiarsi.

Solo una volta comparvero in lontananza le figure bianche e nere delle orche, ma sparirono subito. In genere quegli incontri si svolgevano pacificamente, sebbene le orche fossero tra i pochi nemici pericolosi delle grandi balene. Le orche non si fermavano neppure davanti alle balenottere azzurre. Quando attaccavano, lo facevano in gruppo e con estrema brutalità. Mangiavano la lingua e le labbra della vittima, poi lasciavano sprofondare lentamente sul fondo quel colosso mutilato e moribondo.

Mangiare, emergere, immergersi.

A un certo punto, Lucy si addormentò o perlomeno così parve a Ford. L'ambiente diventava sempre più scuro. Stava calando la sera. Restava solo un'ombra, appena percepibile sullo sfondo: il corpo di Lucy sospeso in acqua, che sprofondava lentamente e altrettanto lentamente risaliva. Erano molti i mammiferi marini che riposavano in quel modo. Nel giro di qualche minuto, arrivavano semiaddormentati in superficie, respiravano, sprofondavano ancora in acqua e si addormentavano. Non dormivano mai più di cinque o sei minuti, tuttavia riuscivano a sommare quelle brevi fasi, ottenendo un sonno ristoratore.

Infine i monitor diventarono neri. Solo lo spazio delle coordinate mostrava la distribuzione del branco.

Notte.

Continuare a guardare senza vedere nulla era di una noia mortale. Ogni tanto lampeggiava qualcosa, una medusa o una seppia. Per il resto, c'era solo il buio assoluto. Sul secondo monitor continuavano a scorrere i dati con le informazioni sul metabolismo di Lucy e sull'ambiente circostante. I punti verdi si muovevano pigramente nello spazio virtuale. Non tutti gli animali del branco dormivano di notte. Le balene si riposavano in momenti diversi. I dati rivelavano variazioni di profondità, quindi anche allora Lucy e le altre mantenevano il comportamento tipico della fase di alimentazione. A seconda della profondità, la temperatura oscillava di mezzo grado. Non di più. Il cuore della balena grigia batteva in continuazione, a volte più lento, a volte più veloce. Gli idrofoni dell'URA coglievano tutti i possibili rumori sottomarini: fruscii, gorgoglii, richiami delle orche e canti delle megattere, ruggiti e ringhi, il lontano rombo dell'elica di una nave.

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