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«Il sequel di Independence day. Crede davvero…» cominciò Roberts.

«Aspetti. Prendiamo la stessa equazione. Un branco di balene grigie e megattere particolarmente nervose si sente disturbato dalla Barrier Queen. In più, arrivano due rimorchiatori e le urtano. Le balene li urtano a loro volta. Per puro caso, la nave è stata attaccata poco prima da una piaga biologica che ha preso all'estero, come un turista che si prende la malaria, e in alto mare un calamaro si è infilato nella montagna di cozze.»

Roberts lo fissava.

«Sa, io non credo alla fantascienza», proseguì Anawak. «Tutto sta nell'interpretazione. Mandi là sotto un paio di uomini. Devono raschiare i sedimenti, guardare se c'è ancora qualche ospite inatteso e catturarlo.»

«Quando pensa che potremo avere i risultati da Nanaimo?» chiese Roberts.

«In pochi giorni, credo. Sarebbe molto utile se avessi una copia del referto», rispose Anawak.

«In via confidenziale», sottolineò Roberts.

«Ovviamente. In via altrettanto confidenziale, vorrei parlare con l'equipaggio.»

Roberts annuì. «L'ultima parola non spetta a me. Ma vedrò che cosa riesco a fare.»

Ritornarono al furgone e Anawak s'infilò il giubbotto. «È la prassi che prevede di consultare gli scienziati in casi simili?» chiese.

«Simili casi non sono di prassi.» Roberts scosse la testa. «È stata una mia idea, avevo letto il suo libro e sapevo che lei si trovava a Vancouver Island. La commissione d'indagine non ne è particolarmente entusiasta. Ma io penso che sia stata la cosa giusta. Non è che ci capiamo molto di balene.»

«Farò del mio meglio. Carichiamo i campioni sull'elicottero. Prima li portiamo a Nanaimo, meglio è. Li metteremo direttamente nelle mani di Sue Oliviera. È la direttrice del laboratorio. Una biologa molecolare molto in gamba.»

Il cellulare di Anawak suonò. Era Susan Stringer.

«Devi ritornare qui il più presto possibile», gli disse.

«Cos'è successo?»

«Abbiamo avuto un contatto radio col Blue Shark. Sono fuori, in mare, e hanno dei problemi.»

Anawak sospettò il peggio. «Con le balene?»

«Non dire sciocchezze.» Il tono di Susan lasciava chiaramente intendere che ormai lo considerava irrecuperabile. «Che problemi vuoi che ci siano con le balene? È quello stupido bastardo che crea problemi, quel maledetto stronzo.»

«Quale bastardo?»

«E chi se non Jack Greywolf?»

6 aprile

Kiel, Germania

Due settimane dopo aver consegnato a Tina Lund i risultati definitivi delle analisi sui vermi, Sigur Johanson era seduto in un taxi che lo stava portando nel luogo più rinomato tra i geografi marini europei, il centro di ricerca Geomar.

Quando servivano notizie sulla formazione, sullo sviluppo e sulla storia del fondale marino, si consultavano sempre gli scienziati di Kiel. Persino James Cameron era andato lì per avere un riscontro sulla fattibilità di progetti come The Abyss o Titanic. Il lavoro degli scienziati del Geomar era difficile da spiegare alla gente comune. A prima vista, rovistare tra i sedimenti e misurare la salinità dell'acqua non sembravano attività destinate a portare un contributo concreto alla soluzione dei più urgenti problemi dell'umanità. In effetti, era difficile spiegare ai profani ciò che, ancora all'inizio degli anni '90, la maggior parte degli scienziati non aveva voluto credere: i fondali marini, lontani dalla luce e dal calore del sole, non erano un deserto roccioso privo di vita. Là sotto, la vita brulicava. Certo, si conoscevano da tempo le specie esotiche lungo le pareti dei camini idrotermali degli abissi. Tuttavia, quando fu chiamato a lavorare al Geomar, nel 1989, il geochimico Erwin Suess dell'Oregon State University aveva raccontato cose ancora più bizzarre: oasi di vita nei pressi delle fonti fredde abissali, misteriose energie chimiche che salivano dall'interno della Terra e massicci giacimenti di una sostanza che, fino ad allora, aveva ricevuto pochissima attenzione, in quanto ritenuta un prodotto bizzarro e privo d'importanza: l'idrato di metano.

Da poco le scienze della Terra cominciavano a uscire dall'ombra in cui loro stesse — come la maggioranza delle scienze — si erano relegate troppo a lungo. Cercavano di aprirsi all'esterno, nutrivano la speranza di poter prevedere e controllare le catastrofi naturali, le trasformazioni climatiche e ambientali. Sembrava che il metano potesse dare una risposta ai problemi energetici del futuro. La fame d'informazioni della stampa si era risvegliata e i ricercatori avevano imparato — all'inizio con timidezza, poi progressivamente con modi da popstar — a piegare a proprio vantaggio l'interesse che si era risvegliato.

IL taxista che stava portando Johanson verso il fiordo di Kiel sembrava non aver capito nulla di tutto ciò. Da venti minuti esprimeva il suo dissenso, chiedendosi come fosse possibile che avessero messo un centro di ricerca costato milioni nelle mani di alcuni pazzi, di gente che, ogni due mesi, partiva per una crociera dispendiosa, mentre quelli come lui riuscivano a campare a stento. Johanson, che parlava perfettamente il tedesco, non aveva voglia di correggere quelle convinzioni, anche perché il taxista era un fiume in piena. Inoltre parlava gesticolando e faceva sbandare paurosamente la macchina.

«Non si sa che cosa combinano», stava infatti brontolando. «Ma lei è un giornalista?» chiese poi, vedendo che Johanson non gli rispondeva.

«No. Sono un biologo.»

L'uomo cambiò argomento all'istante e si dedicò alle devastanti conseguenze delle frodi alimentari. Evidentemente aveva visto in Johanson uno dei responsabili di quello spreco. Borbottava contro la verdura geneticamente modificata, i costosissimi prodotti biologici e intanto provocava il suo passeggero. «Ah, un biologo. Lei sa che cosa si può mangiare senza preoccupazioni? Io non lo so. Non si può mangiare più nulla. Non si dovrebbe mangiare più nulla di quello che c'è in commercio. Non bisognerebbe dargli più nemmeno un centesimo.»

L'auto finì sulla corsia opposta.

«Se non mangia, morirà di fame», disse Johanson.

«E allora? Che importanza ha di cosa si muore? Se non si mangia si muore, se si mangia si muore per quello che si mangia.»

«Lei ha senza dubbio ragione. Personalmente, tuttavia, preferirei morire mangiando un filetto piuttosto che nello scontro con quell'autocisterna.»

Per nulla impressionato, il taxista imboccò l'uscita, tagliando tre corsie e sempre procedendo a grande velocità. L'autobotte strombazzò. Alla sua destra, Johanson vide il mare. Procedevano lungo la riva orientale del fiordo di Kiel. Dalla parte opposta, enormi gru svettavano verso il cielo.

Evidentemente il taxista aveva preso male l'ultima osservazione di Johanson, perché non aveva più detto una parola. Attraversarono le strade della periferia con le casette dal tetto spiovente, finché non comparve l'ampio complesso di edifici di cemento, vetro e acciaio che non avevano nulla a che fare con quella tranquillità piccolo borghese. Il taxista svoltò in modo brusco nella zona dell'istituto e si fermò facendo stridere le gomme. Johanson ispirò profondamente, pagò e scese con la consapevolezza di aver vissuto negli ultimi quindici minuti un'esperienza decisamente peggiore di quella sull'elicottero della Statoil.

«Mi piacerebbe proprio sapere che cosa combinano là dentro», disse il taxista. Sembrava quasi che parlasse al volante.

Johanson si chinò e lo guardò attraverso il finestrino del passeggero. «Lo vuole davvero sapere?»

«Sì.»

«Cercano di salvare il lavoro dei taxisti.»

L'altro lo guardò, sbalordito. «Non capita spesso di portare qui dei clienti…» mormorò.

«Ma per farlo la sua macchina deve muoversi. Se finisce la benzina, i vostri rottami potete anche demolirli, a meno che non si possa farli funzionare con qualcos'altro, e quel qualcosa è nel mare. Metano. Combustibile. Stanno cercando di renderlo utilizzabile.»

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