Литмир - Электронная Библиотека

E i morti aumentavano.

Erano impotenti. Non potevano fare nulla. L'OEM aveva divulgato centinaia di prescrizioni e consigli sul comportamento da tenere in caso di catastrofe, ma, a quanto pareva, i costanti avvertimenti e le esercitazioni pubbliche non avevano ottenuto nessun effetto. Le taniche con l'acqua potabile che dovevano essere presenti in ogni casa non erano state predisposte. E anche dov'era stato fatto, la gente moriva per le tossine che uscivano come gas dalle tubature, dai lavandini, dalle toilette, dalle lavastoviglie. Tutto ciò che Peak poteva fare era portare fuori dalla zona a rischio le persone apparentemente sane e tenerle rinchiuse nei giganteschi campi di quarantena. New York si era trasformata in una zona mortale. Scuole, chiese ed edifici pubblici erano stati trasformati in ospedali, le strade intorno alla città sembravano circondare un'enorme prigione.

Guardò a sinistra.

L'incendio nel tunnel non era ancora spento. L'autista di un'autocisterna militare non aveva indossato bene il respiratore e aveva perso conoscenza mentre viaggiava a tutta velocità. Inoltre si trovava all'interno di un convoglio e aveva così innescato una reazione a catena, nel corso della quale erano esplose dozzine di veicoli. Al momento, nel tunnel c'era la stessa temperatura dell'interno di un vulcano.

Peak si sentiva in qualche modo responsabile di quell'incidente. Ovviamente il rischio di contaminazione nel tunnel era maggiore che nelle strade, dove le tossine si potevano disperdere. Ma come poteva essere ovunque contemporaneamente? E soprattutto, poteva davvero impedire qualcosa?

Se c'era una cosa che Peak odiava era l'inadeguatezza.

E adesso anche Washington era sotto assedio.

«Non ce la facciamo», aveva detto per telefono a Judith Li.

«Dobbiamo», aveva ribattuto lei.

Sorvolarono l'Hudson e fecero rotta verso l'Hackensack Airport, dove un apparecchio militare attendeva Peak per portarlo a Vancouver. Le luci di Manhattan svanirono. Peak si domandò a cosa avrebbe portato la riunione del giorno seguente. Sperava che almeno si fosse arrivati a trovare una cura per mettere fine all'orrore di New York, ma una voce gli diceva di non farsi illusioni. Era la sua voce interiore e, in genere, aveva ragione.

La testa gli rimbombava al ritmo delle pale dell'elicottero.

Peak si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi.

Château Whistler, Canada

Judith Li era soddisfatta.

Certo, la situazione era spaventosa. Ma la giornata era andata bene. Vanderbilt si era messo sulla difensiva e il presidente l'aveva ascoltava. Dopo infinite telefonate, aveva messo insieme un quadro agghiacciante e adesso attendeva con impazienza di essere messa in contatto col segretario alla Difesa. Voleva discutere della nave che il giorno seguente avrebbe dovuto condurre i primi attacchi col sonar. Ma il segretario alla Difesa era impegnato in una riunione, e lei aveva ancora qualche minuto. Avrebbe potuto suonare Schumann con la splendida cornice del cielo stellato.

Erano passate da poco le due. Il telefono squillò. Judith saltò in piedi e rispose. Si aspettava il Pentagono, per cui rimase sbalordita quando sentì una voce diversa. Ma si riprese subito. «Dottor Johanson… Cosa posso fare per lei?»

«Ha tempo?»

«Quando? Ora?»

«Vorrei parlarle a quattr'occhi, generale.»

«Devo fare qualche telefonata. Diciamo tra un'ora?»

«Non è curiosa?»

«Dovrei esserlo.»

«Era convinta che avessi una teoria, no?»

«Oh, certo!» Rifletté per qualche istante, poi disse: «Va bene. Venga».

Riagganciò con un sorriso. Era proprio quello che si aspettava. Johanson non si sarebbe mai presentato da lei senza annunciarsi ed era troppo corretto per scavalcarla. Voleva definire la situazione, anche nel cuore della notte.

Chiamò il centralino. «Sposti la mia telefonata col Pentagono di mezz'ora.» Esitò, poi si corresse: «No, di un'ora».

Vancouver Island

Dopo il racconto di Greywolf, Anawak aveva perso l'appetito. Ma Shoemaker aveva superato se stesso. Aveva cucinato bistecche sontuose, accompagnate da un'insalata con crostini e noci. A mangiare nella sua veranda erano in tre. Alicia evitò di parlare della sua nuova relazione e si mostrò molto socievole. Conosceva una gran quantità di barzellette ed era brava a raccontarle, tanto che avrebbe potuto farlo anche su un palco. Era davvero divertente.

La serata era come un'isola in un mare di desolazione. Nell'Europa medievale, mentre imperversava la peste nera, si ballava e si facevano feste. Non erano ancora a quel punto, ma riuscirono a passare alcune ore parlando di tutto tranne che di tsunami, balene e alghe killer. Anawak era riconoscente per quella distrazione. Shoemaker raccontò alcuni aneddoti sugli inizi della Davies. Risero, chiacchierarono e si gustarono quella serata. Poi, seduti con le gambe allungate, rimasero a osservare l'acqua nera della baia.

Intorno alle due, Anawak si congedò. Alicia rimase. Lei e Tom avevano aperto un'altra bottiglia di vino, e si erano messi a parlare di vecchi film. Anawak bevve un bicchiere d'acqua, ringraziò e si avviò nella notte verso la stazione. Una volta arrivato, accese il computer e si collegò a Internet.

Nel giro di qualche minuto, era riuscito a trovare il professor Kurzweil.

Alle prime luci dell'alba, cominciò a delinearsi il quadro.

12 maggio

Château Whistler, Canada

Probabilmente siamo al punto di svolta, pensò Johanson.

Oppure sono un vecchio pazzo.

Era sul piccolo podio, a sinistra dello schermo. Il proiettore era acceso. Avevano dovuto attendere per qualche minuto Anawak, che aveva pernottato a Tofino, ma ormai c'erano tutti. In prima fila sedevano Salomon Peak, Jack Vanderbilt e Judith Li. Peak era sfinito. Durante la notte era rientrato da New York e sembrava aver perso gran parte delle sue energie.

Johanson aveva passato metà della sua vita in sale riunioni ed era abituato a parlare in pubblico. Nei suoi discorsi, a poco a poco, aveva aggiunto alle nozioni scolastiche le scoperte fatte e le ipotesi formulate, mettendo quindi in conto la possibilità di litigare con alcuni specialisti o sedicenti tali. A parte ciò, le sale riunioni erano un terreno tranquillo. Si comunicava quello che si era scoperto e si facevano domande.

Quella mattina, invece, fu travolto da una sensazione inattesa: l'insicurezza. Come poteva spiegare la sua teoria senza che tutti si spanciassero dalle risate? Judith Li aveva ammesso che poteva avere ragione. Era già molto. Con cauto ottimismo, si poteva addirittura affermare che lei era disposta a seguire il suo ragionamento. Ma l'insicurezza non lo abbandonava. Aveva visto giusto o stava prendendo una solenne cantonata? Quel dubbio lo aveva spinto a trascorrere la notte in bianco, a correggere la sua relazione. Però non si faceva illusioni. Aveva solo quel colpo a disposizione. O riusciva a cogliere gli altri di sorpresa, oppure l'avrebbero considerato un pazzo.

Tutti gli occhi erano puntati su di lui. Il silenzio era assoluto.

Guardò il primo foglio dei suoi appunti. L'introduzione gli era sembrata esauriente. Adesso invece gli appariva incomprensibile e complicata. Durante la notte, mentre gli occhi gli bruciavano per la stanchezza e lui faticava a pensare con lucidità, ne era stato soddisfatto. Ora quello che aveva davanti non lo convinceva. Le argomentazioni non erano approfondite a sufficienza. La struttura retorica era traballante.

Johanson esitò.

Poi mise da parte gli appunti.

Si sentì immediatamente sollevato, come se quei pochi fogli pesassero tonnellate. La sua sicurezza ritornò, come un cavaliere che si prepara alla battaglia tra gli sventolii delle bandiere e gli squilli di tromba. Fece un passo in avanti, si guardò intorno, si assicurò l'attenzione dei presenti e cominciò: «È molto semplice. Le conseguenze ci faranno venire un terribile mal di testa, ma in fondo è tutto molto semplice e immediato. Questa non è una catastrofe naturale. Non abbiamo a che fare né con gruppi terroristici né con Stati canaglia. Non è neppure l'evoluzione a essere impazzita. Tutto ciò non c'entra niente». Fece una pausa, poi riprese: «Sta succedendo qualcosa di completamente diverso. In questi giorni, siamo testimoni di una guerra tra pianeti. Tra due pianeti che non riconosciamo come tali, perché sono fusi in. uno. Tante volte abbiamo guardato lo spazio, in attesa d'intelligenze aliene, e invece esse sono parte integrante di quel mondo che non ci siamo mai sforzati di comprendere veramente, il nostro. Due sistemi radicalmente differenti di vita intelligente coesistono su questo pianeta, e fino a oggi si sono lasciati in pace. Tuttavia, mentre il primo sapeva dello sviluppo del secondo, quest'ultimo — e parlo di noi — non aveva la minima idea della complessità del mondo sottomarino. In altre parole, noi abbiamo ignorato tutto dell'universo sconosciuto con cui dividiamo questo pianeta. L'universo è negli oceani. Gli extraterrestri non arrivano da lontanissime galassie, ma dagli abissi marini. La vita nell'acqua è molto più antica di quella sulla Terra e presumo che questi esseri siano molto più antichi di noi. Non ho idea di quale aspetto abbiano e di come vivano, che cosa pensino e come comunichino. Ma ci dovremo abituare all'idea che esistono. In più noi, da vari decenni, stiamo distruggendo il loro ambiente vitale. E sembra proprio che 'quelli' laggiù siano davvero molto arrabbiati con noi, signore e signori. E non hanno tutti i torti».

152
{"b":"119418","o":1}