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15 agosto

Independence, mar di Groenlandia

Samantha Crowe aveva preso la risposta degli yrr come occasione per mandare negli abissi un secondo e più complesso messaggio. Conteneva informazioni sulla specie umana, sulla sua evoluzione e sulla sua cultura. Vanderbilt non ne era particolarmente felice, ma alla fine Samantha lo aveva convinto che ormai non era più possibile prendere un'altra direzione. Gli yrr erano sul punto di vincere la battaglia.

«Non è cambiato niente, continuiamo ad avere una sola possibilità», aveva detto. «Dobbiamo convincerli che siamo degni di esistere. Questo può accadere solo se raccontiamo il più possibile di noi stessi. Forse c'è qualcosa che non hanno preso in considerazione. Qualcosa che li porterà a ripensarci.»

«L'intersezione di due sistemi di valori», aveva azzardato Judith Li.

«Sì, per quanto piccola sia.»

Sue Oliviera, Sigur Johanson e Mick Rubin si erano seppelliti in laboratorio. Volevano costringere l'essere gelatinoso nella cisterna a dividersi e a disperdersi completamente. Erano in contatto costante con Karen Weaver e Leon Anawak. Karen aveva provvisto i suoi yrr virtuali di un DNA artificiale e aveva inserito un messaggero feromonico. Funzionava. Avevano dimostrato teoricamente che gli unicellulari, per fondersi, utilizzavano un odore, ma la gelatina rifiutava ogni cooperazione pratica. L'essere — per la precisione, la somma degli esseri — si era trasformato in un'ampia superficie ed era affondato sul fondo della cisterna.

Nel frattempo, Alicia e Greywolf analizzavano i filmati dei delfini, senza riuscire a vedere altro che lo scafo dell'Independence, qualche pesce isolato e altri delfini che si riprendevano a vicenda. Trascorrevano il loro tempo nel CIC o nel ponte a pozzo, dove Roscovitz e Kate Ann erano impegnati nelle riparazioni del Deepflight.

Judith Li sapeva che pure gli uomini migliori correvano il rischio di andare in tilt se, di tanto in tanto, non si prendevano una pausa. Si fece mandare le previsioni del tempo e chiese l'analisi della loro attendibilità. Tutto faceva credere che, fino al mattino successivo, il tempo sarebbe stato bello e senza vento. Già in quel momento, rispetto all'inizio della giornata, il moto ondoso si era notevolmente ridotto.

Così aveva chiesto ad Anawak di dedicargli qualche minuto e aveva scoperto che lui non sapeva praticamente nulla della cucina dell'estremo nord. Allora si affidò a Peak, che, nella sua carriera militare, non si era mai occupato del cibo.

Fece una serie di telefonate. Due elicotteri partirono per la costa della Groenlandia. Nel tardo pomeriggio, Judith Li annunciò che il capo chef invitava tutti a un party, che sarebbe cominciato alle nove. Gli elicotteri tornarono, portando tutto il necessario per preparare una cena groenlandese. Sul ponte di volo davanti all'isola furono portati tavoli, sedie e fu allestito un buffet. Venne pure sistemato un impianto stereo e tutt'intorno furono messi dei radiatori per tenere lontano il freddo.

Nella cucina iniziò un gran trambusto. Judith Li era ben nota per la sua capacità di tirare fuori dal cilindro idee eccezionali e di realizzarle nel giro di pochissimo tempo. Carne di caribù passava dalle pentole alle padelle. Fu affettato il maktaaq, la pelle di narvalo croccante, e preparata una zuppa di foca. Inoltre vennero cotte uova di edredone. Il fornaio dell'Independence si dedicò al bunnok, una focaccia di pane azzimo, piatta e molto gustosa, per la cui preparazione a regola d'arte gli inuit facevano gare annuali. Furono sfilettati salmoni e arrostiti salmerini con erbe aromatiche, fu preparato un carpaccio di carne congelata di tricheco e montagne di riso vennero cotte a fuoco lento. Peak si era limitato a far arrivare tutto ciò che non era disponibile in magazzino e si era affidato ciecamente ai consulenti groenlandesi. Solo una specialità gli era suonata sospetta: intestino di tricheco al forno. Per quanto fosse magnificata, era una di quelle cose cui, secondo il suo modo di vedere, si poteva tranquillamente rinunciare.

Aveva predisposto un equipaggio d'emergenza per il ponte, la sala macchine e il CIC. Tutti gli altri comparvero puntuali alle nove sulla coperta dell'Independence: equipaggio, scienziati e soldati. Quel luogo, normalmente deserto, si riempì in un lampo. Circa centosessanta persone presero il loro cocktail analcolico di benvenuto e si accomodarono ai tavoli, oppure rimasero in piedi, sinché non fu aperto il buffet. A un certo punto, l'atmosfera si rilassò e tutti gli ospiti cominciarono a chiacchierare.

Era un party insolito, quello che Judith Li aveva organizzato: alle spalle delle persone c'era l'alto edificio d'acciaio dell'isola e tutt'intorno la vastità solitaria del mare. La foschia si era ritirata e aveva formato all'orizzonte surreali montagne di nuvole, in mezzo alle quali, di tanto in tanto, faceva capolino la sfera del sole. L'aria era frizzante e limpida e, intorno a ogni cosa, sembrava avvolgersi il blu intenso del cielo.

Per un po', tutti si sforzarono di lasciare da parte i discorsi sul motivo per cui erano lì. Fece bene a tutti intrattenersi per un po' su altri argomenti. Tuttavia c'era qualcosa di forzato, quasi di disperato, in quel modo di conversare, come se si trovassero a un vernissage. E poco prima di mezzanotte, quando ormai iniziava il crepuscolo, la fragile barriera si ruppe. La maggior parte dei presenti aveva cominciato a darsi del tu e a dividersi in gruppi, che poi si radunavano intorno agli sciamani del sapere nel tentativo di strappare loro una consolazione che però nessuno poteva offrire.

«Parliamo seriamente», disse Craig C. Buchanan a Samantha. Era l'una passata. «Non crederà davvero a degli esseri unicellulari intelligenti, vero?»

«E perché no?» chiese Samantha di rimando.

«Mi faccia il piacere. Stiamo parlando di vita intelligente, giusto?»

«Così sembra.»

«Allora…» Buchanan cercò le parole. «Non mi aspetto che siano simili a noi, ma suppongo che si rivelino un po' più complessi di un organismo unicellulare. Si dice che gli scimpanzé siano intelligenti e lo stesso si afferma delle balene e dei delfini. Be', tutti hanno un corpo dalla struttura complessa e un cervello grande. Abbiamo imparato che le formiche sono troppo piccole per sviluppare una vera intelligenza. E allora come porrebbe esserci negli unicellulari?»

«Non confonda le due cose, comandante.»

«Quali cose?»

«Quello che ci potrebbe essere e quello che le piacerebbe ci fosse.»

«Non capisco cosa intende.»

«Vuol dire che dobbiamo abituarci all'idea che l'umanità dovrà cedere il predominio a un avversario forte e potente. Grande, bello e coi muscoli», interloquì Peak.

Buchanan batté il palmo della mano sul tavolo. «Non ci credo. Non credo che un organismo primitivo possa dominare questo pianeta e superare in intelligenza l'uomo. Non può essere! Gli uomini sono progrediti…»

«Progresso? Complessità?» esclamò Samantha. «Ma che cosa crede? Che l'evoluzione sia progresso?»

Buchanan la guardò, inquieto.

«Vediamo un po'», riprese Samantha. «L'evoluzione è la lotta per la sopravvivenza del più adatto, per restare a Darwin. È il prodotto dalle avversità, dello scontro con altri esseri viventi o con le catastrofi naturali. Quindi c'è uno sviluppo attraverso la selezione. Ma questo conduce automaticamente a una maggiore complessità? E la maggiore complessità è un progresso?»

«Non so molto dell'evoluzione», mormorò Peak. «Pensavo che nel corso della storia naturale, la maggior parte degli esseri viventi fosse diventata sempre più grande e complessa. Ed è senza dubbio così per noi. Dal mio punto di vista, è indubbiamente il risultato di una tendenza.»

«Una tendenza? Sbagliato. Noi vediamo solo un piccolo frammento della storia, in cui appunto si è sperimentata la maggiore complessità, ma chi ci dice che non siamo finiti in un vicolo cieco dell'evoluzione? Quando ci vediamo all'apice di un trend naturale, non facciamo altro che sopravvalutare noi stessi. Sapete tutti com'è l'albero genealogico dell'evoluzione, quel quadro tutto ramificato con rami principali e secondari. Allora, Sal, se lei pensa a quell'albero, come vedrebbe l'umanità? Come ramo principale o secondario?»

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