«Il SUBSIS potrebbe risolvere questo problema. L'acqua inquinata viene immediatamente compressa nei pozzi di trivellazione, così spinge verso l'alto il petrolio, che a sua volta viene separato dall'acqua che viene ricompressa nel pozzo e così via. Il petrolio e il gas arrivano alla costa tramite oleodotti. In sé, è una cosa davvero raffinata…»
«Ma…»
«Non so se c'è un ma. A quanto pare il SUBSIS può lavorare senza problemi fino a cinquecento metri di profondità. Il costruttore sostiene che non ci sarebbero problemi neppure a duemila metri e i colossi petroliferi sperano nei cinquemila.»
«È realistico?» chiese Johanson.
«A medio termine, sì. Tutto ciò che funziona su scala ridotta funziona anche su grande scala, ne sono convinto, e i benefici sono a portata di mano. Ben presto le stazioni automatizzate faranno sparire le piattaforme.»
«Mi sembra però che lei non condivida l'euforia generale», osservò Johanson.
Bohrmann si grattò la testa. Sembrava che non sapesse come replicare. «Quello che mi preoccupa non è la stazione sottomarina, ma la faciloneria con cui si procede.»
«La stazione sarebbe telecomandata?»
«Sì, completamente. E da terra.»
«Ciò vuol dire che le riparazioni e la manutenzione sono fatte dai robot», osservò Johanson.
Bohrmann annuì.
«Capisco», disse Johanson.
«La questione ha pro e contro. Quando ci si addentra in un territorio sconosciuto, ci sono sempre dei rischi. E nessun luogo è più sconosciuto delle profondità abissali. È giusto automatizzare gli strumenti anziché rischiare vite umane. Va bene mandare un robot per osservare gli avvenimenti e fare qualche esperimento. Ma qui la questione è completamente diversa. Come pensano di riuscire a riportare sotto controllo un incidente a cinquemila metri di profondità, col petrolio che esce dal pozzo ad altissima pressione? Il terreno non si conosce. Gli unici dati noti sono quelli delle misure. Nelle profondità abissali siamo ciechi. Con l'aiuto dei satelliti, di sonar speciali o con le onde sismiche, possiamo disegnare una carta morfologica del fondo oceanico, precisa fino al mezzo metro. Col BSR — il Bottom Simulating Reflection — possiamo investigare la presenza di giacimenti di gas e di petrolio, in modo che si possa dire: 'Qui puoi trivellare', oppure: 'Qui c'è il petrolio, là gli idrati, e laggiù bisogna fare attenzione…' Ma che cosa ci sia là sotto — che cosa ci sia davvero — non lo sappiamo.»
«Quello che ho sempre detto», mormorò Johanson.
«Non vediamo gli effetti delle nostre azioni», mormorò Bohrmann. «Se succede un casino, non possiamo semplicemente far finta di niente… Non mi fraintenda, non sono contro l'estrazione di materie prime. Ma sono contrario a ripetere gli errori. Quando c'è stato il boom petrolifero, nessuno si è preoccupato di come smaltire i rottami installati allegramente in mare. Si sono scaricate sostanze inquinanti e chimiche nel mare e nei fiumi col motto: 'Tanto li assorbiranno'. Sono stati sprofondati nell'oceano materiali radioattivi; sono state sfruttate le risorse e annientate forme di vita senza minimamente curarsi di quanto complesse siano le interdipendenze.»
«Ma arriveremo alle stazioni automatizzate?» chiese Johanson.
«Senza dubbio. Sono economiche, rendono accessibili i giacimenti cui non arriverebbero gli uomini. E prossimamente tutti si butteranno sul metano. Perché brucia inquinando meno di tutti gli altri combustibili. Giusto! Perché un passaggio dal petrolio e dal carbone al metano rallenterebbe l'effetto serra. Giusto anche questo. È tutto giusto, finché si rimane sul piano ideale. Ma alle industrie piace confondere il piano ideale con quello della realtà. Vogliono confonderli. Fra tutte le previsioni, si sceglierà sempre quella più ottimistica, in modo che si proceda più velocemente, anche se non si sa nulla dell'universo in cui mettono le mani.»
«Ma come ci riusciranno? Come si fa a estrarre gli idrati se si distruggono lungo la strada per arrivare in superficie?»
«Anche per questo entrano in gioco le stazioni automatizzate. Si sciolgono gli idrati a grande profondità, per esempio riscaldandoli; s'imprigiona in imbuti il gas liberato e lo si convoglia in superficie. Sembra fantastico, ma chi ci garantisce che lo scioglimento non provochi una reazione a catena e che non si ripeta una catastrofe come nel Paleocene?»
«Crede davvero che sia possibile?»
Bohrmann allargò le braccia. «Ogni attacco mosso senza riflettere è un'azione suicida. Ma ormai si è già cominciato. L'India, il Giappone e la Cina sono molto attivi.» Sorrise, sconsolato. «E neppure loro sanno che cosa c'è la sotto. Non sanno nulla.»
«Vermi», mormorò Johanson, pensando alle riprese che Victor aveva fatto sul fondale oceanico. E alla sinistra creatura che era sparita così velocemente nell'oscurità.
Vermi. Mostri. Metano. Catastrofe climatica.
Doveva assolutamente bere qualcosa.
11 aprile
Vancouver Island e Clayoquot Sound, Canada
Anawak era furioso.
L'animale, dalla testa alla coda, misurava oltre dieci metri. Era una delle più grandi orche migratrici che avesse mai visto, un esemplare imponente. Nelle fauci semiaperte, luccicavano le tipiche file serrate di piccoli denti a forma di cono. Verosimilmente l'animale era già molto vecchio, tuttavia sembrava scoppiare di energia. Solo se si guardava con attenzione si notavano i punti in cui la pelle bianca e nera aveva perso splendore e appariva opaca e ricoperta di croste. Aveva un occhio chiuso e l'altro coperto.
Sebbene quell'orca fosse gigantesca, ormai non era più pericolosa per i salmoni. Era distesa su un fianco nella sabbia umida. Era morta.
Lui aveva riconosciuto subito l'orca: era indicata nel suo archivio con la sigla J-19, ma era stata soprannominata Gengis per la pinna dorsale ricurva come una sciabola. Girò intorno all'animale e, a breve distanza da esso, vide John Ford — il direttore del programma di ricerca sui mammiferi marini dell'acquario di Vancouver — che conversava con Sue Oliviera, la direttrice del laboratorio di Nanaimo, e un terzo uomo. Si trovavano sotto gli alberi nei pressi della spiaggia. Ford fece cenno ad Anawak di avvicinarsi e gli presentò lo sconosciuto: «Il dottor Ray Fenwick, del Canadian Department of Fisheries and Oceans».
Fenwick era venuto per eseguire l'autopsia. Dopo aver saputo della morte di Gengis, Ford aveva consigliato, tanto per cambiare, di non fare gli esami a porte chiuse, ma direttamente sulla spiaggia. Voleva far vedere l'anatomia di un'orca al maggior numero possibile di giornalisti e di studenti. «Inoltre sulla spiaggia fa un altro effetto», aveva detto. «Non è così asettico e distante. Proprio sotto il naso abbiamo un'orca morta e il mare. È il suo spazio vitale, non il nostro. È quasi davanti alla porta di casa sua. Se facciamo qui l'autopsia, susciteremo più comprensione, più compassione, più sgomento. È un trucco, ma funzionerà.»
Avevano discusso quell'eventualità in quattro: Ford, Fenwick, Anawak e Palm della stazione di ricerca marina sulla Strawberry Island, una minuscola isola nella baia di Tofino. Da quella postazione, la squadra della Strawberry Island monitorava l'ecosistema del Clayoquot Sound. Palm era un'autorità per quanto riguardava la popolazione delle orche. Si erano subito trovati d'accordo nel condurre l'autopsia in pubblico perché avrebbe attirato l'attenzione. E le orche avevano davvero bisogno di attenzione.
«Dall'aspetto, si direbbe morta per un'infezione batteriologica», osservò Fenwick, rispondendo a una domanda di Anawak. «Ma non mi azzarderei a dire altro.»
«Già», disse Anawak cupo. «Ricordate cosa successe nel 1999? Sette orche morte. E tutte infettate.»
«The torture never stops…» Sue Oliviera canticchiò il verso di una canzone di Frank Zappa, poi guardò Anawak e, con aria da cospiratrice, gli fece un cenno del capo. «Vieni un po' con me.»