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«Però questo verme ha le mascelle…»

«Quel verme è una creatura senza senso. Guardi lei stesso.»

Si avviarono verso un quadro di comando semicircolare alla fine del padiglione. A Johanson ricordava la centrale di comando di Victor, solo un po' più grande. La maggior parte delle due dozzine di monitor era accesa e mostrava riprese dall'interno della cisterna.

«Osserviamo quello che succede con ventiquattro telecamere; inoltre ogni centimetro cubo è sottoposto continuamente a misurazioni», spiegò Bohrmann. «Le macchie bianche sui monitor della fila superiore sono idrati. Vede? Qui a sinistra c'è la zona in cui, ieri mattina, abbiamo messo i policheti.»

Johanson socchiuse le palpebre. «Vedo solo ghiaccio», disse.

«Osservi meglio.»

Johanson studiò ogni particolare dell'immagine e improvvisamente si accorse di due macchie scure. Le indicò. «Che cos'è? Un infossamento?»

Sahling scambiò qualche parola col tecnico. L'immagine s'ingrandì, rendendo visibili i due vermi.

«Le superfici sono bucate», disse Sahling. «Ecco il filmato accelerato.»

Johanson vide i vermi che si muovevano, contraendosi sul ghiaccio. Ogni tanto annusavano qua e là, come per capire da dove venisse l'odore. Nella riproduzione accelerata, i loro movimenti erano strani e bizzarri. I ciuffi setolosi vibravano, come elettrizzati.

«Stia attento ora!» esclamò Sahling.

Uno dei vermi si era fermato. Sembrava percorso da onde pulsanti.

Poi sparì nel ghiaccio.

«Mio Dio, scava», mormorò Johanson.

Il secondo animale era un po' distante e muoveva la testa come se seguisse il ritmo di qualche musica. D'un tratto estrasse fuori la proboscide con le mascelle chitinose.

«Mangia il ghiaccio!» urlò Johanson, fissando il video. Ma, nello stesso istante, pensò: Di che ti meravigli? Vivono in simbiosi coi batteri che estraggono gli idrati di metano, e quindi hanno le mandibole per scavare. Tutto ciò lasciava spazio a una sola conclusione: i vermi volevano arrivare ai batteri che si trovano nel ghiaccio più profondo. Johanson continuò a fissare, come stregato, i corpi pelosi che si rivoltavano negli idrati. A velocità accelerata le parti posteriori del loro corpo vibravano. Poi, in modo improvviso, sparirono, lasciando solo le macchie scure dei buchi sul ghiaccio. Non c'è motivo di agitarsi, pensò allora. Anche altri vermi scavano. Alcuni trivellano le navi fino a distruggerle… Ma perché scavano gli idrati? «Dove sono gli animali?» chiese.

Sahling guardò il monitor. «Sono morti.»

«Morti?»

«Crepati. Asfissiati. I vermi hanno bisogno di ossigeno.»

«Lo so. È il senso di tutta la simbiosi. I batteri nutrono il verme ed esso, girando vorticosamente, procura l'ossigeno ai batteri. Ma cos'è successo qui

«Qui è successo che hanno scavato fino alla morte. Hanno fatto dei buchi, divorando il ghiaccio come se fosse un'autentica leccornia, finché non sono finiti nella sacca di gas, dove sono soffocati», spiegò Sahling.

«Kamikaze», mormorò Bohrmann.

«In effetti sembra proprio un suicidio», annuì Johanson. Poi aggiunse: «Oppure sono stati ingannati da qualcosa».

«Possibile. Ma da che cosa? All'interno degli idrati non c'è nulla che possa giustificare un simile comportamento.»

«Forse il gas che c'è la sotto?» ipotizzò Johanson, sfregandosi la fronte.

«Ci abbiamo pensato anche noi. Tuttavia non spiega perché essi si suicidino.»

Johanson rivide dentro di sé il brulichio sul fondale marino e il suo malessere crebbe. Se milioni di vermi si mettono a scavare nel ghiaccio, quali potrebbero essere le conseguenze?

Bohrmann sembrò intuire i suoi pensieri. «Gli animali non possono destabilizzare il ghiaccio», disse. «In mare, lo strato di idrati è molto più spesso che qui. Questi animaletti impazziti scalfiscono solo la superficie e al massimo un decimo dello strato di ghiaccio. Poi inevitabilmente muoiono.»

«E allora? Esaminerà altri vermi?»

«Sì. Ne abbiamo ancora qualcuno. Forse sfrutteremo anche l'occasione per dare un'occhiata sul posto. Credo che la Statoli ci darà il benvenuto. Nelle prossime settimane, la Sonne deve andare in Groenlandia. Potremmo anticipare la partenza della spedizione e fare una visita al luogo in cui ha trovato i policheti.» Bohrmann sollevò le mani. «Ma questa decisione non spetta a me. Devono prenderla altri. Heiko e io abbiamo solo avuto l'idea.»

Johanson guardò la gigantesca cisterna e pensò ai vermi morti al suo interno. Alla fine mormorò: «Sì, è una buona idea».

Più tardi, Johanson andò al suo hotel per cambiarsi. Cercò di raggiungere telefonicamente Tina Lund, ma non ci riuscì. La immaginò tra le braccia di Kare Sverdrup e riagganciò.

Bohrmann l'aveva invitato a cena in uno dei bistro più alla moda di Kiel. Si osservò nello specchio del bagno. Doveva spuntarsi la barba almeno di un paio di millimetri. Tutto il resto era a posto. La chioma — un tempo nera, ora striata di grigio — gli cadeva rigogliosa sulle spalle. Sotto le ciglia lunghe e nere lampeggiava lo sguardo di sempre. C'erano momenti in cui si compiaceva del proprio carisma. In altri — soprattutto di prima mattina — non riusciva più a scorgerlo. Fino ad allora erano bastate un paio di tazze di tè e un minimo di cura per rimettersi in ordine. Non molto tempo prima, una studentessa l'aveva paragonato all'attore tedesco Maximilian Schell, e Johanson si era sentito lusingato, ma poi aveva scoperto che Schell aveva settant'anni. Quindi aveva cambiato crema idratante.

Frugò nella valigia e scelse un pullover con la cerniera, si mise la giacca e si avvolse una sciarpa attorno al collo. Non era vestito bene, ma a lui piaceva così. Coltivava la propria trascuratezza e gli piaceva infischiarsene della moda. Solo nei momenti di profonda sincerità era disposto ad ammettere che il suo aspetto trasandato costituiva anch'esso una moda, che lui seguiva in modo non dissimile da come facevano gli altri, pronti ad adottare ogni nuova tendenza. E, sempre in quelle rare occasioni, ammetteva pure che dedicava più tempo alla sua chioma in disordine di quanto non facesse la maggior parte dell'umanità per mantenere una pettinatura perfetta.

Dopo aver sorriso alla propria immagine riflessa, uscì dalla stanza, lasciò l'hotel e prese un taxi per raggiungere il luogo dell'appuntamento.

Bohrmann lo stava aspettando. Chiacchierarono a lungo del più e del meno, bevvero vino e mangiarono delle sogliole fantastiche. Dopo un po', tuttavia, la conversazione ritornò sugli abissi marini.

Durante il dessert, come per caso, Bohrmann chiese: «Lei conosce i progetti della Statoil?»

«Solo a grandi linee. Non sono un esperto di questioni petrolifere.»

«Che cosa stano progettando? È difficile che vogliano costruire una piattaforma così al largo…»

«Non è una piattaforma», lo corresse Johanson.

Bohrmann sorseggiò il caffè, poi disse: «Mi scusi, non voglio costringerla a parlare. Non so quanto siano confidenziali queste informazioni, ma…»

«Non c'è problema. Sono un noto chiacchierone. Se mi confidano qualcosa, non può essere un segreto.»

Bohrmann rise. «Allora, cosa crede che vogliano costruire?»

«Stanno pensando a una soluzione sottomarina. A una stazione completamente automatizzata.»

«Qualcosa del tipo SUBSIS?»

«Cos'è il SUBSIS?» chiese Johanson.

«SUBSIS è l'acronimo di Subsea Separation and Injection System. Una stazione sottomarina. Ci lavorano da qualche anno sul giacimento di Trollfeld della fossa norvegese», spiegò Bohrmann.

«Non ne avevo mai sentito parlare.»

«Chieda al suo committente. Il SUBSIS è una stazione d'estrazione. Si trova a trecentocinquanta metri di profondità sul fondale oceanico, dove separa acqua e gas dal petrolio. Al momento, questo processo ha ancora luogo sulle piattaforme e l'acqua di produzione viene dispersa in mare.»

«Ma certo!» esclamò Johanson, ricordando che Tina aveva fatto cenno a quella cosa. «L'acqua di produzione rende sterili i pesci, no?»

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