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14 maggio

Anawak

Il ronzio del motore lo fece sprofondare lentamente nel sonno.

Una volta presa la decisione di partire, aveva avuto la sensazione di essersi lasciato alle spalle le sue difficoltà. Si era convinto che Judith Li l'avrebbe bloccato; invece lei l'aveva letteralmente spinto a prendere il primo aereo.

«Se muore uno dei genitori o un bambino, allora bisogna stare con la propria famiglia. Se dovesse restare qui, non se lo perdonerebbe mai. Nella vita, la cosa più importante è la famiglia. Si può contare solo sulla famiglia. La prego soltanto di essere sempre raggiungibile.»

Adesso, seduto sull'aereo, si chiedeva se Judith Li avesse una famiglia.

E lui? Lui aveva una famiglia?

Era una situazione paradossale: una persona che probabilmente non aveva legami coi propri parenti tesseva le lodi della famiglia a chi non ne aveva una.

Il suo vicino, un esperto del clima che proveniva dal Massachusetts, cominciò a russare. Anawak spostò un po' indietro lo schienale del sedile e guardò fuori dal finestrino. Ormai da ore, era solo con se stesso e coi propri pensieri, però non era ancora sicuro che gli facesse bene. Un Boeing della Canadian Airlines International l'aveva portato da Vancouver al Pearsons Airport di Toronto, investito da un temporale insolitamente violento, che aveva bloccato il traffico aereo. Ad Anawak era sembrato un brutto segno. Aveva aspettato, impaziente, vicino al gate, mentre un aereo dopo l'altro si agganciava alla passerella telescopica. Finalmente, con due ore di ritardo, anche il suo volo per Montreal era partito.

Da lì in poi era andato tutto liscio. Aveva preso una stanza all'Holiday Inn vicino al Dorval Airport e poi era ritornato nella sala d'attesa. Alcuni segni gli indicavano che era entrato in un altro mondo. Alcuni uomini bevevano caffè davanti alla grande finestra panoramica. Indossavano tute con loghi di ditte petrolifere e sembrava che avessero solo un bagaglio a mano. Il volto di due di loro somigliava a quello di Anawak: largo, piatto e scuro, con gli occhi dal taglio orientale. All'esterno, enormi bancali strapieni, assicurati da reti d'imballaggio, sparivano l'uno dopo l'altro nel ventre del Boeing 747 della Canadian North Airlines. Stavano ancora scivolando sul ponte elevatore quando venne fatta la chiamata per i passeggeri. Attraversarono a piedi il campo di atterraggio ed entrarono nell'aereo attraverso una scala collocata sotto la coda. I sedili erano presenti solo nel terzo anteriore dell'aereo; lo spazio rimanente era riservato al bagagliaio.

Il viaggio era ripreso da due ore. Di tanto in tanto l'aereo sobbalzava leggermente. Si trovavano ormai nei pressi dello stretto di Hudson e le masse nuvolose si stavano aprendo, rivelando un paesaggio montagnoso e frastagliato, coperto da nevai e continuamente interrotto da laghi su cui galleggiavano lastroni di ghiaccio. Poi apparve la costa. Lo stretto di Hudson scivolò sotto di loro e Anawak si rese conto che aveva attraversato l'ultimo confine. Dentro di lui scoppiò una confusione di sentimenti che lo strappò alla sonnolenza. In ogni azione c'era un punto di non ritorno. Fisicamente quel punto era stato Montreal, ma a livello simbolico era lo stretto di Hudson. Al di là di quella striscia d'acqua cominciava il mondo in cui lui non voleva più tornare.

Anawak era in viaggio verso la sua terra natale, verso la sua patria ai margini del Circolo Polare: Nunavut.

Continuava a guardare fuori e cercava di scacciare quel pensiero. Dopo mezz'ora tornarono a sorvolare la terraferma, poi un'abbagliante piana ricoperta di ghiaccio, la Frobisher Bay, a sud-est dell'isola di Baffin. L'aereo virò a destra e si abbassò velocemente. Comparvero un edificio di un giallo intenso e una tozza torre di controllo. Accovacciata in quel paesaggio scuro e collinoso, sembrava un avamposto umano in un pianeta sconosciuto. In realtà segnalava l'aeroporto di Iqaluit, «la scuola dei pesci», la capitale del Nunavut.

Il Boeing atterrò.

Anawak non dovette aspettare a lungo per la consegna dei bagagli. Prese lo zaino e bighellonò nella zona. C'era una mostra sull'arte inuit, con arazzi e statue di steatite. Nel mezzo della sala scorse una figura a grandezza naturale, tarchiata, vestita con stivali e abiti tradizionali. Nella destra, reggeva un tamburo piatto che teneva sollevato sopra la testa; nell'altra mano, aveva la bacchetta. Il suonatore di tamburo di pietra aveva la bocca aperta nel canto. Irradiava vigore e sicurezza. Anawak si fermò per un momento e lesse la didascalia sul basamento della scultura: IN PARTICOLARI OCCASIONI, QUANDO GLI UOMINI RITORNANO DALL'ARTICO, VENGONO ACCOLTI DA DANZE COL TAMBURO E DA UN TIPO PARTICOLARE DI CANTO, CHIAMATO «THROAT SINGING». Poi si diresse al check-in della First Air e consegnò lo zaino. La donna che prese in consegna il bagaglio lo avvertì che l'aereo sarebbe partito con un'ora di ritardo.

«Forse deve sbrigare ancora qualcosa in città», disse in tono gentile.

Anawak esitò. «No. Conosco appena la città.»

Lei lo guardò con un certo stupore. Evidentemente si meravigliava che un uomo che aveva l'aspetto da inuk non conoscesse la capitale. Poi sorrise. «Iqaluit offre varie attrazioni. Dovrebbe sfruttare l'occasione. Vada al museo Nunatta-Sunaqutangit, ha tutto il tempo. C'è una bella mostra sull'arte tradizionale e contemporanea.»

«Oh, sì… certo.»

«Oppure all'Unikkaarvik Visitor Information Centre. E faccia una puntata alla chiesa anglicana. Sembra un igloo… È l'unica chiesa al mondo che somigli a un igloo!»

Anawak osservò la donna. Era un'indigena, piccola, con la frangia e la coda di cavallo. Quando allargava il sorriso, le brillavano gli occhi.

«Avrei potuto giurare che lei fosse di Iqaluit», disse lei.

«No.» Per un attimo fu tentato di confidarle che veniva da Cape Dorset, invece disse: «Vancouver. Vengo da Vancouver».

«Oh, io adoro Vancouver!» esclamò lei.

Anawak si guardò intorno. Temeva di bloccare la coda, ma evidentemente quel giorno era l'unico a prendere quel volo. «C'è mai stata?»

«No, non sono mai stata così lontano. Ma su Internet ci sono le fotografie e tutte le informazioni. Una bella città.» Sorrise. «Un po' più grande di Iqaluit, vero?»

Ricambiò il sorriso. «Sì, penso proprio di sì.»

«Oh, però noi non siamo più così piccoli. Iqaluit ha pur sempre seimila abitanti. E noi ci stiamo lavorando. Tra qualche anno saremo grandi come Vancouver. Be', insomma… quasi. Mi scusi.»

Dietro di lui era apparsa una coppia. Quindi non era l'unico a prendere quel volo. Salutò in fretta e uscì prima che alla donna venisse in mente di accompagnarlo nella visita alla città.

Iqaluit.

Il suo ultimo ricordo era così lontano. Alcune cose gli sembrarono note; altre non le riconobbe. Le nuvole erano rimaste nel Quebec, il cielo era splendido, e il sole rendeva gradevole la temperatura. Dovevano esserci almeno dieci gradi. Anawak aveva troppo caldo col piumino sopra il pullover pesante, così lo tolse, se lo legò intorno ai fianchi e s'incamminò faticosamente verso il centro, lungo la strada polverosa. Il traffico lo sorprese. Non ricordava che un tempo ci fossero in circolazione così tanti fuoristrada. Vide anche numerosi ATV, veicoli simili a una moto, ma dotati di tre o quattro ruote. Ai lati della strada sorgevano le tipiche case di legno dell'Artico, costruite su bassi pilastri a causa del permafrost. Tutti gli edifici dell'Artico poggiavano su pilastri, Se si fosse costruito direttamente sul terreno, questo si sarebbe sciolto a causa del calore irradiato e gli edifici sarebbero sprofondati.

Più Anawak si guardava intorno, più gli si formava nella mente l'immagine di Dio che, un giorno, aveva agitato in una mano una gran quantità di edifici, come se fossero dadi, e poi li aveva lanciati, sparpagliandoli senza il minimo progetto. Impressionanti costruzioni colossali, cubiche, di un bianco abbagliante e senza finestre, si levavano in mezzo alle tradizionali casette, dipinte di verde oliva o di un color ruggine. La scuola sembrava un UFO finito lì per caso. Alcuni dei condomini rilucevano in un intenso color petrolio e acquamarina. Un po' più avanti, incappò nell'edificio dell'assemblea legislativa, un incrocio tra una gradevole villa con giardino e una cupola abitativa per astronauti. Nelle vicinanze sorgeva un elegante edificio a tre piani, con grandi finestre e un ingresso imponente, che si sarebbe potuto trovare in qualsiasi città del mondo, se si prescindeva dai tipici pilastri e dalla scala. Anawak cercò di non farsi condizionare da quelle impressioni, ma, da quand'era scampato al disastro dell'idrovolante, aveva perso la capacità di abbandonarsi all'indifferenza. Quel selvaggio miscuglio architettonico trasmetteva una sensazione di spensieratezza, quasi di allegria, nei confronti della quale lui provava una profonda diffidenza, ma che non lo lasciava insensibile.

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