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Eccola, saliva a zig-zag lungo la soletta del bacino.

Afferrò la ringhiera e si tirò su. Dall'alto sentì arrivare ordini impartiti ad alta voce e uno scalpiccio di piedi in corsa. In fretta si tolse la maschera e le pinne, attaccò la torcia alla cintura e scivolò verso l'alto finché non riuscì a vedere oltre il bordo.

I fucili erano puntati su di lui.

Nella baracca diedero ad Anawak una coperta. Aveva cercato di spiegare ai soldati che era uno scienziato membro dell'unità di crisi, ma non gli avevano dato retta. Il loro compito era tenerlo prigioniero. Dato che non aveva opposto resistenza né cercato di fuggire, l'avevano portato nella baracca, dove c'erano un sacco di soldati e un ufficiale di servizio che lo stava tormentando con una raffica di domande. Anawak sapeva che non aveva senso inventarsi una storia. Non l'avrebbero comunque lasciato andare. Così raccontò chi era e perché era là. In breve, raccontò la verità.

L'ufficiale lo ascoltò, pensieroso. «Può dimostrarlo?» chiese.

Anawak scosse la testa. «I miei documenti sono nella sacca, là fuori. Potrei andarla a prendere.»

«Ci dica dov'è.»

Spiegò ai soldati dove aveva nascosto la sacca. Cinque minuti dopo, l'ufficiale aveva in mano i suoi documenti e li osservava con attenzione. «Se i suoi documenti non sono falsi, lei si chiama Leon Anawak, residente a Vancouver…»

«Non ho fatto altro che ripeterlo.»

«Dovrà spiegare molte cose. Vuole un caffè? Mi sembra infreddolito.»

«Sono parecchio infreddolito.»

L'ufficiale si alzò dalla scrivania, andò al distributore automatico e schiacciò un tasto. Uscì un bicchiere di plastica che si riempì di un liquido fumante. Anawak bevve a piccoli sorsi e sentì entrare un po' di calore nel corpo intirizzito.

«Non so se credere alla sua storia», disse l'ufficiale, mentre gli girava lentamente intorno. «Se appartiene davvero all'unità di crisi, perché non ha fatto una richiesta ufficiale?»

«Lo chieda ai suoi superiori. Sono settimane che cerco di prendere contatto con la Inglewood.»

L'ufficiale aggrottò la fronte. «Lei è un collaboratore indipendente?»

«Sì.»

«Capisco.»

Anawak si guardò intorno. Ipotizzò che la stanza ammobiliata con sedie di resopal e tavoli consunti fosse la sala per la pausa pranzo dei lavoratori del bacino, trasformata in una centrale operativa provvisoria. Aveva completamente sbagliato a valutare la situazione. «E ora?» chiese.

«Ora?» L'ufficiale gli si sedette di fronte e intrecciò le dita. «Per prima cosa devo pregarla di restare qui. Il caso non è così semplice. Lei si trova in una zona militare.»

«Non ci sono cartelli, se mi permette di farglielo notare.»

«Non c'è neppure un cartello che autorizzi a entrare, dottor Anawak.»

Anawak annuì. Di che poteva lamentarsi? Era stata un'idea balorda. O forse no… Perlomeno adesso sapeva che l'esercito si stava occupando della cosa, che stava studiando gli organismi sullo scafo e che li teneva in vita. Era poco probabile che i mitili raccolti per Sue Oliviera raggiungessero Nanaimo, almeno finché i capi continuavano a fare ostruzionismo.

L'ufficiale prese la radio dalla cintura e parlò brevemente con qualcuno. «Lei è davvero fortunato», disse poi. «Verrà qualcuno che si occuperà di lei.»

«Perché non prende i miei dati e mi lascia andare?»

«Non è così semplice.»

«Non ho fatto niente d'illegale», disse Anawak. Ma non suonava molto convincente neppure alle sue orecchie.

L'ufficiale sorrise. «Le leggi sulla violazione di domicilio valgono anche per i membri delle unità di crisi. Sulla base del diritto civile.» Poi se ne andò, lasciando Anawak coi soldati. Non gli parlavano, ma lo tenevano d'occhio. Perlomeno il caffè era riuscito a scaldarlo… quello e la rabbia per aver mandato tutto all'aria. Si era dimostrato un perfetto idiota. L'unica consolazione era la prospettiva di ottenere qualche informazione da chi doveva «occuparsi» di lui.

Attese mezz'ora senza fare assolutamente nulla. Poi sentì un elicottero avvicinarsi. Voltando la testa, sbirciò attraverso la finestra che dava sul bacino portuale. Un fascio luminoso entrò nella baracca e un potente proiettore scivolò sull'acqua. Poco dopo, quando l'elicottero sorvolò l'edificio e si abbassò, il rumore dei rotori si fece assordante. Il rombo si trasformò poi in un battito ritmico. L'elicottero era atterrato.

Anawak sospirò. Adesso avrebbe dovuto raccontare tutto una seconda volta. Chi era? Che cosa stava cercando?

Sentì dei passi avvicinarsi e frammenti di conversazione. Entrarono due soldati. Dietro di loro, c'era l'ufficiale, che annunciò: «Ci sono visite per lei, dottor Anawak».

Poi fece un passo di lato e la silhouette di un'altra persona comparve nel riquadro illuminato della porta. Anawak la riconobbe subito. Rimase ferma per un attimo come se volesse osservare all'intorno, quindi si avvicinò lentamente finché non gli fu proprio davanti. Anawak la guardò negli occhi. Due acquamarine in un viso asiatico.

«Buonasera», disse lei con voce bassa e raffinata.

Era il generale comandante Judith Li.

3 maggio

Thorvaldson, scarpata continentale norvegese

Clifford Stone era nato ad Aberdeen, in Scozia, secondo di tre figli. Fin dai primi anni di vita, gli era andato tutto male. Era piccolo, mingherlino e animato da una cattiveria che non aveva nulla d'infantile. La sua famiglia lo trattava con distacco, come se fosse una disgrazia, un contrattempo penoso che, se ignorato, sarebbe diventato meno gravoso da sopportare. Clifford non doveva portare la responsabilità del primogenito e non era coccolato come la sorella minore. Non si poteva dire che fosse maltrattato, perché in fondo non gli mancava nulla.

Tranne il calore delle attenzioni.

Non aveva mai provato la sensazione di eccellere in qualcosa.

Da bambino non aveva amici e, intorno ai diciotto anni, aveva cominciato a perdere i capelli. Nessuno sembrava interessato alla possibilità che lui si diplomasse brillantemente. Il suo professore gli aveva comunicato il risultato finale con una certa sorpresa, come se si fosse accorto soltanto allora di quel ragazzo insignificante, con gli occhi neri così penetranti. Ma era un ottimo risultato, così il professore gli aveva fatto un cenno gentile col capo, gli aveva sorriso e nello stesso istante si era dimenticato quel viso magro.

Stone aveva studiato ingegneria, rivelandosi molto portato per quella materia. Finalmente — e all'improvviso — aveva ottenuto quel riconoscimento cui aveva sempre ambito. Ma esso era rimasto confinato nell'ambito della sua vita professionale. Lo Stone privato era pressoché inesistente e non tanto perché nessuno volesse avere rapporti con lui, quanto perché lui stesso non si concedeva una vita privata. Il semplice pensiero di una vita privata gli faceva paura, significava ricadere nella mancanza di considerazione da parte degli altri. L'ingegnere Clifford Stone, con la sua intelligenza brillante, faceva carriera alla Statoil, ma disprezzava per le sue paure l'uomo calvo che la sera tornava a casa da solo, finché arrivò a togliergli ogni diritto all'esistenza.

Il colosso petrolifero era diventato la sua vita, la sua famiglia, la sua ragion d'essere, perché dava a Stone qualcosa che, a casa, lui non aveva mai provato. La sensazione di essere davanti agli altri. Di essere il primo. Era una sensazione nel contempo inebriante e angosciosa, un inseguimento continuo. Col passare del tempo, Stone aveva cominciato a nutrire una vera ossessione per la supremazia assoluta, benché nessun successo lo appagasse veramente, dato che non avrebbe saputo come e con chi festeggiare i trionfi. Quando raggiungeva una meta, era incapace di fermarsi anche solo per un attimo. Andava avanti come un ossesso. Fermarsi un attimo, probabilmente, avrebbe significato gettare uno sguardo a un ragazzo magro, dai lineamenti straordinariamente adulti; un ragazzo ignorato tanto a lungo che, alla fine, aveva iniziato a ignorare se stesso. E non c'era nulla che Stone temesse più di quegli esigenti occhi neri.

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