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Il mare era in tempesta. Tutt'intorno a loro rotolavano grigie onde mostruose. Anawak strinse con tale forza il timone che le nocche gli diventarono bianche. Risalì la successiva montagna d'acqua e cadde nell'abisso appena dietro, risalì di nuovo e ricadde. Poi diminuì la velocità. Era meglio andare più lentamente. Le onde erano molto alte, ma non ripide. Girò lo zodiac di centottanta gradi, si lasciò sollevare dalla successiva montagna che rotolava verso di lui, quindi procedette molto lentamente, guardando fuori.

La vista era spettrale.

L'isola in fiamme dell'Independence emergeva dal mare color ardesia e spiccava nel cielo nuvoloso. Sembrava che un vulcano stesse eruttando in mezzo all'oceano. Nel frattempo, anche il ponte di volo era finito sott'acqua, e solo le rovine in fiamme continuavano testardamente a opporsi al destino ineluttabile. Anìwak era riuscito a distanziare lo zodiac dalla nave che stava affondando, ma il ruggito delle fiamme li raggiungeva lo stesso.

Continuava a fissare quello spettacolo, ammutolito.

«Forme di vita intelligenti…» Samantha gli comparve al fianco, bianca come un lenzuolo, con le labbra blu e tremante. Si stringeva nella giacca, e teneva piegata la gamba ferita. «Con loro si hanno solo guai.»

Anawak rimase in silenzio.

Guardarono insieme l'Independence che affondava.

PARTE QUINTA

Contatto

«La ricerca di un'intelligenza aliena è sempre la ricerca della propria.»

Carl Sagan

Sogni

Sveglia!

Sono sveglia.

Come fai a saperlo? Intorno a te c'è la più totale oscurità. Ti stai avvicinando alle origini del mondo. Cosa vedi?

Niente.

Cosa vedi?

Vedo le luci verdi e rosse degli strumenti davanti a me. Strumenti che indicano la pressione interna ed esterna, le riserve di ossigeno del Deepflight, l'angolazione con cui scivolo in basso, le riserve di combustibile, la velocità. Il batiscafo esamina la composizione chimica dell'acqua e mi mostra dati e tabelle. I sensori registrano la temperatura esterna e me la trasmettono.

Cos'altro vedi?

Vedo un vortice di particelle. Nella luce dei proiettori sembra neve. Sostanze organiche che sprofondano. L'acqua è satura di composti organici. Un po' torbida. No, molto torbida.

Puoi vedere ancora molto. Non vuoi vedere tutto?

Tutto?

Karen ha messo quasi mille metri tra sé e la superficie dell'acqua e non è ancora stata aggredita. Non ha incontrato né orche né yrr. Il Deepflight lavora in maniera impeccabile. Si avvita verso il basso in un'ampia spirale ellissoidale. Di tanto in tanto, qualche piccolo pesce finisce nella luce e scappa via subito. Tutt'intorno danzano detriti. Krill, granchi minuscoli… Nient'altro che punti bianchi nel cono del proiettore. L'abbondanza di particelle riflette la luce verso la sorgente.

Da dieci minuti, Karen fissa concentrata il bozzolo sporco, grigio, formicolante che le luci del Deepflight proiettano davanti a sé. Oscurità illuminata artificialmente. Luce che non illumina. Dieci minuti in cui ogni senso del sopra e del sotto è scomparso. Ogni due o tre secondi controlla sugli strumenti quello che la vista all'esterno non può dirle: a che velocità va, con quale inclinazione, da quanto tempo.

L'affidabilità del computer.

Naturalmente sa che è la sua voce quella con cui sta dialogando quasi inconsapevolmente. È la quintessenza delle esperienze fatte, della vita imparata e vissuta: punti di vista solo al limite della coscienza. Qualcosa le sta parlando, qualcosa che, nel contempo, è fuori di lei e con lei, la cui esistenza le era rimasta nascosta fino a quel momento. Quella cosa nella sua testa le pone domande, le fa proposte, la confonde.

Cosa vedi?

Poco.

Poco è già un'esagerazione. Solo gli uomini accettano l'idea assurda di affidarsi a un apparato sensoriale artificiale quando il loro non funziona più. Con tutto il rispetto per i tuoi strumenti, per sapere dove va la tua specie, un cono luminoso è assai inadatto, Karen. Quella luce è solo uno spazio angusto, una prigione. Libera la tua mente. Vuoi vedere tutto?

Sì.

Allora spegni i proiettori.

Karen esita. Aveva comunque intenzione di farlo. Sarebbe stato necessario per vedere la luminescenza blu nell'oscurità, quando sarebbe arrivato il momento. Ma quando? Con sorpresa, si rende conto di quanto si fosse aggrappata a quel ridicolo cono luminoso. Troppo. Come a una piccola torcia elettrica sotto le coperte. Uno alla volta, spegne i potenti proiettori. Rimangono solo le spie della strumentazione. La pioggia di particelle sparisce.

Il nero assoluto la circonda.

Le acque polari sono blu. Nel Pacifico settentrionale c'è poca vita dipendente dalla clorofilla, come pure in determinate zone intorno al continente Antartico. A pochi metri sotto la superficie, quel blu sembra quasi un cielo. Come un astronauta che, in una navicella spaziale, vede il blu diventare sempre più scuro, finché lui non si trova circondato dal nero dello spazio, così su un batiscafo si sprofonda nella direzione opposta, verso un universo pieno di misteri, una zona d'intimità. In fondo, non importa se l'uomo sale o scende. In entrambi i casi, con le immagini abituali spariscono le sensazioni abituali o tutto ciò che i sensi umani trasformano in sensazioni, anzitutto la vista, seguita dal peso. Al contrario dello spazio, il mare è dominato dalla forza di gravità, ma chi si trova a mille metri di profondità, in viaggio nelle tenebre assolute, non può che fidarsi dell'indicatore digitale per sapere se sta scendendo o salendo. Simili informazioni non possono venire né dall'orecchio interno, né da uno sguardo all'esterno.

Karen è scesa alla velocità massima. Il Deepflight ha attraversato in fretta quel cielo polare capovolto, e tutto è diventato buio molto velocemente. Quando il batimetro aveva indicato i sessanta metri, già c'era solo il quattro per cento della luce presente in superficie, e lei aveva comunque acceso i proiettori. Un'astronauta impegnata a illuminare l'universo con una lampadina.

Sveglia, Karen.

Sono sveglia.

Sì, certo, sei sveglia e molto concentrata, ma stai sognando il sogno sbagliato. Tutta l'umanità è prigioniera del sogno a occhi aperti di un mondo che non esiste. Noi sogniamo un cosmo fatto di tabelle tassonomiche e medie statistiche, che colga oggettivamente la natura. Rifiutiamo di vedere la relazione intima delle cose, legate in un intreccio indistricabile, cerchiamo di scorporare ogni elemento, ordinandolo in una struttura gerarchica al cui vertice mettiamo noi stessi. Ci accordiamo su idoli e frammenti minuscoli che chiamiamo realtà, creiamo conseguenze e gerarchie, deformiamo spazio e tempo. Dobbiamo sempre vedere qualcosa per comprenderlo, ma, nel momento in cui lo rendiamo visibile, lo sottraiamo alla nostra comprensione. L'uomo vedente è cieco, Karen. Guarda nell'oscurità. L'origine di tutta la vita è scura.

L'oscurità è minacciosa.

E invece no! Semplicemente sottrae i punti di riferimento alla nostra esistenza visibile. È così brutta? La natura è obiettiva e ricca di varietà! S'impoverisce attraverso le lenti dei preconcetti, perché noi giudichiamo secondo ciò che approviamo o non approviamo. Vediamo sempre noi stessi in quel violento luccichio. Tutte quelle rappresentazioni sugli schermi dei nostri televisori e dei computer mostrano il mondo reale? La somma di tutte le impressioni può dare varietà, se ci dobbiamo sempre accordare su modelli come «il gatto» o «il colore giallo»? Senza dubbio c'è qualcosa di fantastico nel modo in cui il cervello umano strappa alla ricchezza della realtà questo mondo medio. È un comodo trucco per rendere possibile la comprensione dell'impossibile, ma il prezzo è l'astrazione. Ciò che rimane è un mondo idealizzato, in cui milioni di donne cercano di somigliare a dieci top model, ci sono famiglie che hanno un bambino virgola due, i cinesi arrivano in media a sessantatré anni e a un metro e settanta di altezza. Siamo così ossessionati dalla norma da non renderci più conto che la normalità è nell'anormalità, nella divergenza. La storia della statistica è la storia dell'incomprensione. Ci ha aiutato ad avere uno sguardo d'insieme, ma nega le varianti. Ci ha reso estraneo il mondo.

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