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«Le forme naturali di mutazione…»

«Se le scordi!» Johanson era sconcertato. «Siamo ben oltre. Questi sono esseri diversi, tutti quanti! Nessun DNA è esattamente uguale all'altro.»

«In ogni caso non sono amebe normali.»

«No. In loro non c'è niente di normale.»

«Cosa sono, allora?»

Johanson guardò i risultati. «Non lo so.»

«Neanch'io.» Sue si stropicciò gli occhi. «Però so una cosa. In quella bottiglia c'è ancora del vino. E adesso ne ho proprio bisogno.»

Johanson

Johanson cercò nelle banche dati per confrontare la sequenza del DNA della gelatina con altre analisi già descritte. Sue incappò nel risultato che lei stessa aveva raggiunto il giorno in cui aveva esaminato la sostanza nella testa delle balene. All'epoca, non aveva potuto stabilire differenze nella successione delle coppie di basi. «Avrei dovuto esaminare in maniera più approfondita quelle cellule», borbottò.

Johanson scosse la testa. «Forse non avrebbe trovato niente comunque.»

«Non importa!»

«Come avrebbe potuto sospettare che avevamo a che fare con la fusione di organismi unicellulari? Forza, Sue, è inutile. Lasci perdere e si concentri su questo.»

Sue sospirò. «Sì, ha ragione.» Lanciò un'occhiata all'orologio. «Okay, Johanson. Vada a dormire.»

«E lei?»

«Io vado avanti. Voglio sapere se questo caos di DNA è già stato descritto da qualche parte.»

«Potremmo dividerci il lavoro.»

«Non se ne parla neanche.»

«Non m'importa.»

«Mi ascolti, Sigur! Lei ha bisogno del suo sonno rigeneratore, io no. Da quando ho compiuto quarant'anni, la natura mi ha fornito di rughe e di borse sotto gli occhi. Per me non c'è differenza se sono sveglia o se mi rigiro nel letto. Vada e si porti via quello che resta del suo squisito vino rosso, altrimenti rischio di bermi con quello anche la mia obiettività scientifica.»

Johanson ebbe l'impressione che preferisse occuparsi da sola della faccenda. Era insoddisfatta di se stessa. Naturalmente non aveva nulla da rimproverarsi, ma forse sarebbe stato comunque meglio lasciarla in pace.

Prese la bottiglia e lasciò il laboratorio.

Appena fuori, si rese conto di essere un po' stanco. Oltre il Circolo Polare Artico, il tempo si perdeva. La luce costante dilatava all'infinito il giorno, interrotto solo da poche ore di crepuscolo. Il sole sfuggiva agli sguardi facendo appena capolino da sotto l'orizzonte. Con un po' di buona volontà, quella si poteva definire notte. Dal punto di vista psicologico, era l'occasione migliore per andare a dormire.

Ma Johanson non ne aveva voglia.

Invece risalì la rampa.

Le dimensioni del gigantesco ponte dell'hangar si perdevano nelle ombre squadrate. Come sempre, non si vedeva nessuno. Lanciò un'occhiata al luogo in cui avevano aperto la bottiglia e trovò la cassa nascosta nell'oscurità.

Non era possibile che avesse visto Rubin.

Eppure l'aveva visto!

A che scopo dormire? Doveva osservare ancora una volta la parete.

Con grande delusione e sorpresa, l'ispezione non portò risultati. La percorse diverse volte, fece scorrere le dita lungo le giunture dei pannelli d'acciaio, sulle tubature e sulle casse, ma sembrava proprio che Sue avesse ragione. Doveva aver avuto un'allucinazione. Non c'era niente, né una porta né qualcosa che potesse costituire un passaggio. «E invece non mi sbaglio», si disse sottovoce.

Doveva proprio andare a dormire? Avrebbe comunque continuato a rimuginare su quella faccenda. Forse era il caso di chiedere a qualcuno. A Judith Li, per esempio, oppure a Peak, a Buchanan o ad Anderson. Ma cosa sarebbe successo se si fosse davvero sbagliato?

Sarebbe stato piuttosto imbarazzante.

Sei un ricercatore, quindi ricerca, pensò, testardo.

Senza fretta tornò nella parte dell'hangar verso poppa, si sedette sulla cassa e attese. Quel posto non era male. Anche se fosse arrivato alla conclusione che effettivamente Rubin non era passato attraverso la parete, avrebbe potuto godersi la vista del mare per un po'.

Bevve una sorsata dalla bottiglia.

Il Bordeaux lo scaldò. Le sue palpebre cominciarono a diventare pesanti, finché non riuscì quasi più a tenerle aperte. In effetti era stanco. Però Johanson era uno di quegli uomini che si rifiutavano di arrendersi alle leggi imposte dalla natura al corpo umano. A un certo punto, quando la bottiglia era ormai vuota, finalmente si assopì e il suo spirito aleggiò sopra il mar di Groenlandia, coperto dalla foschia.

Un lieve rumore metallico lo fece sobbalzare.

In un primo momento, lui non rammentò neppure dove fosse. Poi sentì dolorosamente la parete d'acciaio dell'hangar contro la regione lombare. Sul mare, il cielo si era schiarito. Si rialzò a fatica e guardò lungo la parete.

Era aperta.

Ancora intontito, Johanson scese dalla cassa. Nella parete si era aperto un passaggio, grande all'incirca quattro metri quadrati. Si spalancava, luminoso, in mezzo all'acciaio scuro.

Guardò la bottiglia vuota sulla cassa.

Stava sognando?

Si avvicinò al quadrato luminoso e si accorse che dava su un corridoio con le pareti nude. Tubi al neon diffondevano una luce fredda. Dopo pochi metri, il corridoio raggiungeva una parete e faceva una curva.

Johanson spiò all'interno e rimase in ascolto.

Dalla parte opposta arrivavano voci e rumori. D'istinto, fece un passo indietro, riflettendo se non fosse il caso di sparire il più in fretta possibile. In fondo, si trovava su una nave da guerra. Quel settore avrà pure avuto qualche funzione, no? Magari qualcosa in cui i civili non dovevano mettere il naso.

Poi pensò a Rubin.

No! Se se ne fosse andato, non avrebbe più smesso di pensarci.

Rubin era stato lì!

Johanson entrò.

14 agosto

Heerema, al largo di La Palma, Canarie

Bohrmann cercava di godersi il bel tempo, ma non c'era proprio niente di cui godere. Non con milioni di vermi quattrocento metri sotto di lui e con miliardi di batteri che, in un tempo spaventosamente breve, si stavano aprendo la strada nelle sottili ramificazioni degli idrati sul cono vulcanico di La Palma.

Passò attraverso la piattaforma e raggiunse l'edificio principale.

L'Heerema era una piattaforma galleggiante delle dimensioni di diversi campi da calcio. La coperta rettangolare poggiava su sei colonne, che si stendevano uscendo da sei galleggianti. All'asciutto, l'isola somigliava a un goffo catamarano sovradimensionato. Ora i galleggianti erano gonfiati solo in parte e, sotto la superficie dell'acqua, non si vedevano. Solo una parte delle sei colonne emergeva dalle onde. Con un pescaggio di ventun metri e un dislocamento di centomila tonnellate, l'isola galleggiante aveva una notevole stabilità. I semisommersi riuscivano a reggere bene il moto ondoso, anche nelle tempeste più violente e soprattutto erano ben manovrabili e relativamente veloci. Due propulsori a getto facevano raggiungere all'Heerema la velocità di sette nodi che le aveva permesso, nelle settimane precedenti, di coprire la distanza tra la Namibia e La Palma.

A poppa s'innalzava un edificio a due piani che ospitava gli alloggi per l'equipaggio, la mensa, la cucina, il ponte di comando e la sala di controllo. Di fronte, svettavano nel cielo due gru imponenti, ciascuna delle quali poteva sollevare tremila tonnellate. Dalla gru di destra veniva calato negli abissi il condotto dell'aspiratore; l'altra sosteneva il sistema d'illuminazione, un'unità separata con telecamere integrate. Quattro uomini, sistemati nelle cabine di controllo sopraelevate, erano impegnati esclusivamente a coordinare e guidare l'aspiratore e l'isola d'illuminazione.

«Gerrhaard!»

Frost stava arrivando verso di lui da una gru. Bohrmann gli aveva chiesto di chiamarlo semplicemente Gerd, ma Frost insisteva a usare il nome intero, benché lo pronunciasse in modo un po' strascicato, alla texana. Entrarono insieme nell'edificio di poppa e poi nell'oscurità della sala di controllo. C'erano alcuni uomini del team di Frost e alcuni tecnici della De Beer, compreso Jan van Maarten. Il direttore tecnico aveva compiuto il miracolo promesso. Il primo aspiratore sottomarino di vermi della storia dell'umanità era pronto a entrare in azione.

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