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Era un lavoro pazzesco e Rubin non poteva aiutarli perché non stava bene.

«Quello stronzo», sussurrò Sue. «Ora che potrebbe rendersi utile. Ma si può sapere cos'ha?»

«Un'emicrania», rispose Johanson.

«Be', è consolante. L'emicrania fa male.»

Sue mise le pipette coi campioni nel sequenziatore. Per fare i calcoli sarebbero servite varie ore, così si fecero scorrere addosso l'obbligatoria pioggia di acido e uscirono all'aperto. Sue propose una pausa sigaretta nel ponte dell'hangar, ma Johanson aveva un'idea migliore. Sparì nella sua cabina e ricomparve cinque minuti dopo con due bicchieri e una bottiglia di Bordeaux. «Andiamo», disse.

«Dove l'ha scovata?» chiese Sue, meravigliata, mentre scendevano la rampa.

«Una cosa del genere non si 'scova'», rispose Johanson, ridendo sotto i baffi. «Una cosa del genere si porta con sé. Sono un maestro nel portarmi appresso cose proibite.»

Sue occhieggiò incuriosita la bottiglia. «Ma è buono? Non me ne intendo molto.»

«È uno Château Clinet del '90. Pomerol. Alleggerisce il portafoglio e i pensieri.» Johanson adocchiò una cassa metallica vicino a uno degli uffici e vi si diresse. Si sedettero. Non si vedeva nessuno. Di fronte a loro si spalancava il portone della piattaforma di dritta, rivelando il mare che si stendeva, tranquillo e piatto nella penombra della notte polare, attraversato da veli di foschia e gelo, ma senza ghiaccio. Nell'hangar faceva freddo, ma, dopo le ore trascorse nel laboratorio di massima sicurezza, avevano bisogno di aria fresca. Johanson stappò la bottiglia, versò il vino e accostò il suo bicchiere a quello della donna. Un suono cristallino si perse nell'immensità nebbiosa.

«Buono», affermò Sue.

Johanson fece schioccare le labbra. «Ho portato con me qualche bottiglia per le occasioni speciali», disse. «E questa è un'occasione speciale.»

«Crede che riusciremo a trovare le tracce di quelle cose?»

«Forse li abbiamo già.»

«Gli yrr?»

«Già, la questione è proprio questa. Che cosa abbiamo nella cisterna? È possibile immaginare un'intelligenza formata da organismi unicellulari? Da amebe?»

«Se guardo con attenzione l'umanità, mi chiedo cosa ci differenzia dalle amebe.»

«La complessità.»

«È un vantaggio?»

«Lei che ne pensa?»

Sue scrollò le spalle. «Quello che può pensare una microbiologa. Io non ho una cattedra come lei. Non mi confronto con giovani studenti arrabbiati, non comunico con l'opinione pubblica e soffro per la mancanza di distacco da me stessa. Sono una cavia da laboratorio in forma umana. Forse ho i paraocchi, ma vedo ovunque solo microrganismi. Viviamo nell'epoca dei batteri. Mantengono invariata la loro forma da oltre tre miliardi di anni. L'umanità non è altro che una moda passeggera; quando il sole esploderà, da qualche parte ci sarà ancora qualche microbo. Loro sono il vero modello vincente su questo pianeta, non noi. Non so se gli uomini abbiano vantaggi rispetto ai batteri, però se arriveremo a dimostrare che i microbi possiedono l'intelligenza, allora, secondo me, saremo proprio nella merda.»

Johanson sorseggiò il vino. «Sì, sarebbe fatale. Anche solo per quello che le Chiese cristiane dovrebbero spiegare ai loro fedeli: che la creazione divina ha raggiunto il suo apice il quinto giorno, non il sesto.»

«Posso farle una domanda personale?»

«Certo.»

«Come fa a venire a capo di tutta questa faccenda?»

«Finché c'è del Bordeaux eccezionale non vedo difficoltà insormontabili.»

«Non prova rabbia?»

«Contro chi?»

«Contro quelli là sotto.»

«È possibile risolvere questo problema con la rabbia?»

«Certo che no, o mio Socrate!» Sue fece un sorriso stentato. «M'interessa, davvero. Hanno distrutto la sua casa…»

«Sì, una parte.»

«Non lo trova terribile? La sua casa a Trondheim…»

Johanson fece ruotare il vino nel bicchiere. «Meno di quanto pensassi», disse, dopo un momento di silenzio. «Certo, era una casa fantastica, piena di cose magnifiche, ma non conteneva la mia vita. È sorprendente come ci si stacchi con facilità dalla propria cantina e da una biblioteca ben selezionata. Inoltre, per quanto strano possa sembrare, me ne ero già staccato da tempo. Dal giorno in cui sono volato alle Shetland devo essermi congedato dalla mia casa, in un certo senso senza neppure accorgermene. Ho chiuso la porta, me ne sono andato e, nel contempo, si è chiuso qualcosa anche nella mia testa. Ho pensato: se dovessi morire, quale sarebbe la cosa di cui sentiresti maggiormente la mancanza? E non era la casa. Non quella.»

«Ce n'è un'altra?»

«Sì.» Johanson bevve. «Su un lago nell'entroterra. Quando si è seduti là, sulla veranda, guardando l'acqua, si ascolta Sibelius o Brahms, e si beve un sorso di vino… è una cosa completamente diversa. È quello il luogo di cui sento davvero la mancanza.»

«Sembra bello.»

«Sa perché sopporto tutto questo? Per poter tornare là.» Johanson prese la bottiglia e le riempì il bicchiere. «Dovrebbe esserci stata, aver visto il cielo stellato che si specchia nell'acqua. Non lo dimenticherebbe più. Tutta la sua esistenza sarebbe legata a quell'isolata scintilla. L'universo diventerebbe come trasparente. Un'esperienza straordinaria, ma che si può fare soltanto da soli.»

«È stato là dopo lo tsunami?»

«Nel ricordo.»

Sue bevve un sorso di vino. «Sinora sono stata fortunata», mormorò. «Io non ho perso nulla. Ho ancora tutto, gli amici e la famiglia.» Si fermò un momento e sorrise. «Però non ho una casa al lago.»

«Tutti hanno una casa al lago.»

Le parve che Johanson volesse aggiungere qualcosa. E invece lui si limitò a far girare di nuovo il vino nel bicchiere. Rimasero lì a bere il Bordeaux e a guardare la foschia che si stendeva sul mare.

«Ho perso un'amica», disse infine Johanson.

Sue rimase in silenzio.

«Era un po' complicata. Faceva sempre tutto di corsa.» Sorrise. «Strano, ci siamo trovati davvero solo dopo esserci lasciati. Ma sì. È il corso delle cose.»

«Mi dispiace», mormorò Sue.

Johanson annuì. La fissò, ma poi il suo sguardo parve oltrepassarle. Era come se i suoi occhi si fossero pietrificati. Sue aggrottò la fronte e voltò la testa. «C'è qualcosa?»

«Ho visto Rubin.»

«Dove?»

«Laggiù.» Johanson indicò la parete dell'hangar nel mezzo della nave. «È entrato là.»

«Entrato? Là non c'è nulla in cui si possa entrare.»

Una parete alta diversi metri divideva l'hangar dal resto del ponte. Sue aveva ragione. Laggiù non c'erano porte. «Che ci sia qualcosa nel vino?» ironizzò.

Johanson scosse la testa. «Posso giurare che era Rubin. È comparso per un attimo, poi è sparito.»

«Ne è sicuro?»

«Sicurissimo.»

«Ci ha visto?»

«Difficile. Siamo in un angolo in ombra. Avrebbe dovuto guardare con molta attenzione.»

«Chiediamogli se si è rimesso in forma.»

Johanson continuava a osservare la parete. Poi disse: «Sì. Chiediamoglielo».

Quando tornarono in laboratorio, la bottiglia di Bordeaux era vuota per metà, ma Sue non si sentiva ubriaca. In un certo senso, il vino non aveva fatto effetto nell'aria gelida. Era solo straordinariamente allegra e animata dal pensiero di fare una scoperta eccezionale.

E la fece.

Nel laboratorio di massima sicurezza, la macchina aveva finito il proprio lavoro. Fecero arrivare i risultati sulla console del computer all'esterno del laboratorio. Lo schermo mostrava una serie di sequenze di base. Le pupille di Sue si muovevano a zig-zag, mentre lei scorreva le righe dall'alto in basso. A ogni fila, la sua mandibola sembrava abbassarsi un po'. «Non può essere», mormorò.

«Che cosa?» Johanson si chinò sulle sue spalle. Lesse. E tra le sue sopracciglia si formarono due profonde rughe. «Sono tutte diverse!»

«Sì.»

«Impossibile! Esseri identici hanno DNA identico.»

«Gli esseri di una specie sì.»

«Ma questi sono esseri di una specie.»

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