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«Grazie», sogghignò Anawak. «Finalmente una rigorosa spiegazione scientifica.»

«Il racconto deriva da un antico ciclo haida: Hoyá Káganas, 'I giganti del corvo'», disse Greywolf. «Presso i nootka si trovano storie simili e molte ruotano intorno al mare. O vieni da lui o lui ti distrugge.»

«Forse dovremmo prestare più attenzione a queste leggende», disse Alicia. «Nel caso non riuscissimo a fare passi avanti con la scienza.»

«Da quando t'interessi dei miti?» si meravigliò Anawak.

«È divertente.»

«Tu sei ancora più concreta di me.»

«E allora? In ogni caso, i miti dicono molto chiaramente come vivere in pace con la natura. A chi interessa se anche una sola di quelle parole è vera? Si riceve qualcosa e si rende qualcosa. Questa è la verità.»

Greywolf sorrise e diede dei colpetti al delfino. «Così avremmo risolto il problema, vero, Licia? Allora basterebbe usare il tuo corpo.»

«Che vorresti dire?»

«Mi hanno detto che la gente che viveva sul mare di Bering aveva un'usanza singolare. Prima che i cacciatori uscissero in mare, quello che lanciava di arpione doveva andare a letto con la figlia del capo, per prendere l'odore della sua vagina. Quello attirava la balena vicino alla barca e la addolciva a tal punto che si lasciava uccidere.»

«A una cosa del genere possono arrivare solo gli uomini», sbuffò Alicia.

«Uomini, donne, balene…» Greywolf rise. «Hishuk ish ts'awalk. 'Tutto è uno'.»

«Okay», esclamò Alicia. «Immergiamoci sul fondo marino, cerchiamo Sedna e pettiniamola.»

Tutto è uno… Quella frase riecheggiò nella mente di Anawak. Akesuk gli aveva detto: «Non potete risolvere questo problema con la scienza, ragazzo mio. Uno sciamano ti direbbe che tutto ciò dipende dagli spiriti del mondo animale che vagano negli esseri viventi. I qallunaat hanno iniziato a distruggere la vita. Si sono inimicati gli spiriti, la dea del mare, Sedna. Chiunque siano quegli esseri, non otterrete nulla se cercherete di attaccarli». E aveva aggiunto: «Nella lotta per la supremazia non ci sono vincitori… Imparate a comprenderli invece di combatterli».

Roscovitz e Kate Ann avevano fatto un passo avanti nella riparazione del Deepflight, e intanto loro stavano lì a nuotare coi delfini e a raccontarsi leggende sugli spiriti e sulla dea del mare. Si divertivano e, nonostante il riscaldamento e le mute protettive, senza rendersene conto perdevano progressivamente il calore corporeo.

Come avrebbero potuto pettinare i capelli della dea del mare?

Fino a quel momento, gli uomini avevano gettato a Sedna soltanto sostanze tossiche e scorie nucleari. Una marea nera dopo l'altra, che finiva per ingarbugliarle ancora di più i capelli. Avevano cacciato i suoi animali e molti si erano addirittura estinti per colpa loro.

Anawak sentiva il cuore battere nell'acqua gelida. Aveva i brividi. Qualcosa gli diceva che quell'istante di felicità sarebbe stato breve. Aveva fatto pace con molte cose, aveva conquistato nuovi amici, si sentiva libero dal peso di un'esistenza intesa nel modo sbagliato.

In lui s'insinuò il vago sospetto che tutto ciò stesse per finire. Non si sarebbero mai più ritrovati insieme in quel modo.

Greywolf esaminò la bardatura del sesto e ultimo delfino della squadra e annuì, soddisfatto. «Tutto a posto», disse. «Mandiamoli fuori.»

Laboratorio di massima sicurezza

«Sono proprio una stupida. Ma ero forse cieca?»

Sue osservava lo schermo su cui c'era l'ingrandimento del campione messo sotto il microscopio a fluorescenza. A Nanaimo aveva esaminato diverse volte la gelatina o, meglio, ciò che ne era rimasto dopo che avevano tolto la sostanza dal cervello delle balene. Aveva guardato al microscopio anche i frammenti attaccati al coltello di Anawak durante l'immersione sotto la Barrier Queen. Ma non sarebbe mai arrivata a pensare che una sostanza in decomposizione fosse formata da un insieme di organismi unicellulari.

Avrebbe dovuto capirlo prima. Ma tutti si erano concentrati sull'alga killer, la Pfiesteria. Lo stesso Roche non si era accorto che la sostanza gelatinosa in decomposizione non era sparita, ma si trovava lì sotto il microscopio in forma di organismi unicellulari morti o moribondi. Nell'interno degli astici e dei granchi c'era tutto, e tutto si era mischiato: alghe killer, gelatina e acqua marina. Acqua marina!

Per secoli ci si era lasciato sfuggire il novantanove per cento delle forme di vita perché si prestava attenzione soltanto ai pesci, ai mammiferi e ai crostacei. In realtà, non erano gli squali, le balene e i calamari giganti a dominare gli oceani, ma eserciti di esseri microscopici. In ogni litro d'acqua di superficie, c'erano dozzine di miliardi di virus, un miliardo di batteri, cinque milioni di organismi unicellulari e un milione di alghe. Anche i campioni d'acqua presi dalle zone senza luce e con le condizioni meno favorevoli alla vita, cioè oltre i seimila metri, mostravano la presenza di milioni di virus e batteri. In quel caos, era praticamente impossibile mantenere una visione d'insieme. Più la ricerca si spingeva nel microcosmo, più esso si rivelava immenso. Cos'era l'acqua marina? Uno sguardo attraverso un microscopio a fluorescenza portava alla conclusione che si trattava di una sorta di gel poco denso. In ogni goccia le macromolecole erano collegate da una sorta d'intreccio di ponti sospesi. Nel groviglio di fili trasparenti, membrane e pellicole, innumerevoli batteri trovavano la loro nicchia ecologica. Bastava un millilitro per avere una misura lineare di due chilometri di molecole del DNA, trecentodieci chilometri di proteine e cinquemilaseicento chilometri di polisaccaridi. E da qualche parte lì in mezzo si nascondevano i membri di una forma di vita probabilmente intelligente. Si nascondevano lì dentro e intanto mostravano il volto di microbi assolutamente comuni. La gelatina si presentava in modo così bizzarro non perché formata da forme di vita esotica, ma perché composta da amebe degli abissi assolutamente ordinarie.

Sue Oliviera sobbalzò.

Era evidente perché Roche non aveva capito, perché non aveva capito lei stessa e perché non avevano capito tutte le persone che avevano analizzato l'acqua del bacino di carenaggio. Nessuno aveva pensato che le amebe degli abissi marini potessero fondersi e guidare granchi e balene.

«Non può essere», mormorò.

Le sue parole suonarono straordinariamente prive di energia. Senza il riverbero, rimasero chiuse dentro l'involucro della sua tuta protettiva. Lei confrontò di nuovo i risultati tassonomici, ma senza scoprire nulla di nuovo. La gelatina era composta dai rappresentanti di un insieme di una nuova specie di amebe, una specie che in gran parte proveniva da oltre i tremila metri di profondità, talvolta anche da profondità maggiori, ed era presente in masse inimmaginabili.

«Sciocchezze», sibilò la biologa. «Mi stai prendendo in giro, piccola. Ti sei travestita. Hai solo l'aspetto di un'ameba. Non ti credo, non ti credo per niente! Cosa diavolo sei, realmente?»

DNA

Dopo il ritorno di Johanson, si misero all'opera per isolare le singole cellule della gelatina. Senza sosta, congelarono e scaldarono le amebe, finché le pareti delle cellule non scoppiarono. Dopo l'aggiunta di proteinasi, le molecole proteiche si frantumarono in catene di aminoacidi. Aggiunsero del fenolo e centrifugarono i campioni — una procedura lunga e difficile -, liberarono la soluzione dai residui proteici e dai resti delle pareti cellulari, tolsero gli elementi precipitati e finalmente ottennero un liquido acquoso e non troppo limpido, la chiave per la comprensione dell'organismo sconosciuto.

Una soluzione di DNA.

Il passo successivo richiese ancora più pazienza. Per decifrare il DNA, dovevano isolarne una parte e farne delle copie. Non era possibile leggere il genoma nel suo complesso, perché era troppo complicato, così si gettarono ad analizzare le sequenze di alcune parti determinate.

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