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Anawak rimase in silenzio.

«Siamo un popolo disorientato», riprese Frank. «Molte cose sono migliorate, tuttavia penso che siamo prigionieri di un conflitto che difficilmente riusciremo a risolvere da soli. Ti ho raccontato che, dopo ogni battuta di pesca, dopo ogni affare che chiudo con successo, dopo ogni festa, metto da parte qualcosa per il corvo? Il corvo è sempre affamato.»

«No, non me l'avevi detto.»

«Lo sapevi?»

«No.»

«Il corvo non rientra nei miti delle nostre isole, ma in quelli degli haida e dei tlingit. Da noi trovi le storie di Kánekelak, il Transformer. Però ci è caro anche il corvo. I tlingit dicono che parla per i poveri, come ha fatto Gesù Cristo. Allora metto da parte un pezzetto di carne o di pesce per il mai sazio corvo, che un tempo era un figlio dell'uomo-animale, Ashamed. Suo padre l'aveva nascosto nella pelle di corvo e l'aveva chiamato Wigyét. Wigyét fu mandato in giro per il mondo dopo che aveva divorato il suo villaggio. Per il viaggio ricevette una pietra su cui potersi riposare, e la pietra è diventata la Terra in cui viviamo. Grazie a un trucco, Wigyét rubò la luce del sole e la portò sulla Terra. Io do al corvo ciò che è del corvo. D'altra parte, so anche che il corvo è il risultato di un processo evolutivo alla cui origine ci sono aminoacidi, proteine e organismi unicellulari. Amo i nostri miti della creazione, ma guardo anche i notiziari televisivi, leggo e so che cos'è il Big Bang. Anche i cristiani lo sanno, tuttavia nelle loro Chiese raccontano dei sette giorni della creazione e dei dieci comandamenti. Ma loro si sono permessi il lusso di cambiare mentalità lentamente, e di trovare nel corso dei secoli una via per coniugare mitologia e scienza moderna. Invece da noi si è preteso che lo facessimo in fretta. Siamo stati gettati in un mondo che non era il nostro e che non potrà mai essere il nostro. Ora, ritorniamo nel nostro mondo e ci accorgiamo che ci è estraneo. Questa è la maledizione dello sradicamento, Leon. Alla fine, non ti senti più a casa da nessuna parte, né nel mondo straniero né nella tua patria. Gli indiani sono stati sradicati. Ora i bianchi fanno del loro meglio per rimettere le cose a posto… Ma come possono aiutarci visto che si sono sradicati essi stessi? Distruggono il mondo che li ha generati. Anche loro hanno perso la patria. In un modo o nell'altro, è così per tutti.» Frank guardò a lungo Anawak. Poi sorrise, un sorriso segnato da decine di rughe. «È stata davvero una bella e patetica lezione indiana, eh, amico mio? Vieni, andiamo a bere qualcosa. Ah, già, che stupido… Tu non bevi.»

1° maggio

Trondheim, Norvegia

Prima dell'incontro, avevano appuntamento nella caffetteria, ma Tina non arrivava. Johanson bevve un caffè e guardò le lancette dell'orologio, dietro il bancone, che sembravano strisciare sul quadrante. Strisciavano anche i vermi, altrettanto stoici e imperterriti, senza tregua.

Ogni secondo che passava, trivellavano il ghiaccio sempre più in profondità. E, fino a quel momento, non c'era modo di fermarli.

Johanson rabbrividì.

Il tempo non passa, fugge via, gli sussurrò una voce.

L'inizio di qualcosa.

Un piano. Tutto è pilotato…

Che idea assurda. Un piano di chi? Che cos'hanno pianificato le cavallette quando si sono divorate il raccolto di un'estate? Nulla. Avevano fame e sono arrivate. Che cosa progettano i vermi, che cosa progettano le alghe o le meduse?

Che cosa progetta la Statoil?

Skaugen era ritornato in volo da Stavanger e voleva un rapporto dettagliato. A quanto pareva, era riuscito a fare un passo avanti e adesso era ansioso di confrontare i risultati. Era stata Tina ad avere l'idea di parlare prima a quattr'occhi con Johanson, per concordare una posizione comune. Ma ora lui era lì, solo, a bersi il caffè.

Probabilmente era stata trattenuta. Forse da Kare, pensò. Sulla nave, e anche dopo, non avevano più parlato della loro vita privata e Johanson aveva evitato accuratamente di fare domande. Odiava l'invadenza e l'indiscrezione, senza contare che Tina, al momento, sembrava avere tempo solo per se stessa.

Il cellulare suonò. Era lei.

«Dove diavolo sei?» gridò Johanson. «Ho dovuto bere anche il tuo caffè.»

«Mi dispiace.»

«Non importa, per me il caffè non è mai abbastanza. Seriamente, che cos'è successo?»

«Sono già nella sala riunioni. Volevo chiamarti, ma eravamo troppo impegnati.»

Aveva una voce strana. «È tutto a posto?» chiese Johanson.

«Certo. Vuoi venire? La strada la conosci.»

«Arrivo subito.»

Dunque Tina era già lì. Quindi dovevano parlare di qualcosa che non era destinato alle orecchie di Johanson.

Ma certo… Il loro maledetto progetto di trivellazione.

Quando entrò nella sala, Tina, Skaugen e Stone erano davanti a una grande carta, che mostrava la zona in cui era stata pianificata la trivellazione. Il capo progetto stava parlando con Tina e cercava di controllarsi. Lei sembrava tesa. Anche Skaugen non aveva una faccia contenta. All'ingresso di Johanson si girò, sollevando gli angoli della bocca in un sorriso appena accennato. Hvistendahl era in fondo alla sala e stava telefonando.

«Sono arrivato troppo presto?» chiese Johanson in tono cauto.

«No, è un bene che sia arrivato.» Skaugen indicò il tavolo nero e lucido. «Sediamoci.»

Tina sollevò lo sguardo. Sembrava che si fosse accorta solo in quel momento di Johanson. Lasciò Stone a metà del discorso, andò verso Johanson e lo baciò sulle guance. «Skaugen vuole dare il benservito a Stone», gli sussurrò. «Ci devi aiutare, hai capito?»

Johanson non fece una piega. Tina voleva che lui la sostenesse. Era impazzita a coinvolgerlo in una simile situazione?

Lei si sedette. Hvistendahl chiuse il cellulare. Johanson avrebbe voluto andarsene subito, lasciando Tina coi suoi problemi. Con molto distacco disse: «Allora, per prima cosa, ho fatto delle ricerche mirate, com'eravamo d'accordo. Cioè mi sono rivolto ai ricercatori e agli istituti che hanno ricevuto incarichi o sono stati consultati dalle industrie energetiche».

«È stata una manovra intelligente?» chiese Hvistendahl sorpreso. «Pensavo che volessimo agire senza attirare l'attenzione… Ascoltare i rumori del bosco, insomma.»

«Il bosco era troppo grande, ho dovuto limitarlo.»

«Voglio sperare che lei non abbia detto a nessuno che noi…»

«Niente paura. Ho solo fatto un po' di domande. Un biologo curioso dell'NTNU.»

Skaugen strinse le labbra. «Immagino che non sia stato sommerso d'informazioni.»

«Dipende.» Johanson indicò una cartellina. «Basta leggere tra le righe. Gli scienziati non sono bravi a mentire, odiano fare politica. Quello che ho è un dossier di sfumature. Qua e là si può letteralmente vedere il bavaglio. In ogni caso, ho la ferma convinzione che il nostro verme sia stato trovato anche da altri.»

«Ne è convìnto, ma non lo sa per certo», disse Stone.

«Finora nessuno l'ha ammesso esplicitamente. Ma alcuni sono diventati improvvisamente molto curiosi.» Johanson guardò Stone direttamente negli occhi. «Soltanto ricercatori d'istituti che lavorano a stretto contatto con industrie petrolifere. Uno di loro s'interessa esclusivamente dell'estrazione del metano.»

«Chi?» chiese Skaugen in tono aggressivo.

«Uno a Tokyo… Un certo Ryo Matsumoto. Il suo istituto per la precisione, con lui non ho parlato.»

«Matsumoto? E chi è?» chiese Hvistendahl.

«Il più importante ricercatore giapponese di idrati», rispose Skaugen. «Anni fa, per arrivare al metano, ha condotto prove di carotaggio sul permafrost canadese.»

«Quando ho rivolto ai suoi uomini alcune domande sui vermi, sono entrati in fibrillazione», proseguì Johanson. «Mi hanno posto altre domande. Volevano sapere se i vermi potevano destabilizzare gli idrati. E se ce n'erano tanti.»

«Questo non prova che Matsumoto abbia informazioni sui vermi», borbottò Stone.

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