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Prima che sbarcasse, aveva condiviso le sue preoccupazioni con Karen Weaver. Da allora, le mandava regolarmente e-mail coi rapporti sulla situazione e le confidava i suoi peggiori timori. Alcuni giorni prima, il suo team aveva rilevato che la concentrazione di gas nel mare del Nord era salita a picco, e lui aveva valutato la possibilità che ciò fosse in qualche modo in relazione con la scomparsa dei canali.

Adesso, solo nella sua cabina, ne era quasi sicuro.

Lavorava senza posa, mentre la notte polare induceva anche i più incalliti marinai a starsene appoggiati al parapetto a guardare lo spettacolo. Sedeva, curvo su pile di calcoli, diagrammi e schede. Di tanto in tanto, mandava un'e-mail a Karen Weaver per salutarla e per metterla al corrente delle sue ultime scoperte.

Era così sprofondato nel suo lavoro, che per un po' riuscì a ignorare il tremolio che percorreva la nave, finché la tazza di tè sulla sua scrivania non gli si rovesciò sui pantaloni.

«Al diavolo!» sbraitò. Il tè bollente gli scorreva sulla coscia e tra le gambe. Spinse indietro la sedia e si alzò per constatare i danni.

Poi si bloccò, le mani aggrappate allo schienale della sedia, e si mise in ascolto.

Si sbagliava?

Ma no, sentiva davvero gridare. A quel suono, si aggiunse un rumore di passi pesanti, frenetici. Là fuori stava succedendo qualcosa. Il tremolio si fece più intenso. La nave vibrava. Improvvisamente qualcosa gli fece perdere l'equilibrio. Gemendo, sbatté contro la scrivania. Un attimo dopo il pavimento gli mancò sotto i piedi, come se tutta la nave fosse finita in un buco. Bauer fu sbattuto a terra sulla schiena. Fu preso dal terrore, un terrore profondo, mostruoso. Si rialzò a fatica e barcollò fuori dalla cabina. Sentiva urla altissime. I motori erano stati accesi. Qualcuno gridò qualcosa in islandese. Bauer non capì che cosa, perché conosceva solo l'inglese, ma non gli sfuggì il panico che permeava quella voce e che venne amplificato dalla voce che aveva risposto.

Un maremoto?

Lo scienziato percorse in fretta il corridoio e la scala per raggiungere la coperta. La nave ondeggiava selvaggiamente e lui faticava a reggersi in piedi. Barcollando, arrivò all'aperto e sentì un odore disgustoso.

Allora comprese cosa stava succedendo.

Riuscì a raggiungere il parapetto e a guardare fuori. Tutt'intorno, il mare ribolliva di bianco. Come se fossero in una pentola.

Non c'erano onde. Non c'era tempesta. Erano bolle. Gigantesche bolle che salivano.

Di nuovo perse l'equilibrio e cadde in avanti, battendo violentemente la faccia contro l'assito. Il dolore gli esplose nella testa. Quando riuscì a sollevare lo sguardo, gli occhiali si erano rotti. Senza occhiali, lui era praticamente cieco. Riuscì comunque a vedere il mare che si richiudeva sopra la nave.

Mio Dio! pensò. Mio Dio, aiutaci.

30 aprile

Vancouver Island, Canada

La notte risplendeva di un verde cupo.

Non faceva né caldo né freddo… C'era una sorta di gradevole assenza di temperatura. L'atto del respirare sembrava finito tra gli eventi privi di sviluppo, rimpiazzato da una funzione estesa, che permetteva di muoversi liberamente tra gli elementi. Dopo essere caduto attraverso quell'universo verde scuro, Anawak fu preso dall'euforia e distese le braccia, sentendosi un Icaro che aveva scelto gli abissi come cielo. Sprofondava, ubriacato dalla sensazione di mancanza di peso. Sul fondo c'era qualcosa che splendeva, un paesaggio ampio e ghiacciato. Poi l'oceano verde scuro si trasformò in un cielo notturno.

Era sul bordo di una distesa di ghiaccio e guardava l'acqua nera e tranquilla. Sopra di lui, un'infinità di stelle.

Com'era meraviglioso starsene lì. Il bordo di ghiaccio si sarebbe staccato dalla terraferma e avrebbe navigato per il mare del Nord, sempre più a settentrione, e lui, come passeggero, sarebbe andato là dove non lo attendevano domande pressanti, bensì una casa. La sua casa. Sarebbe stato a casa. La nostalgia si liberò nel petto di Anawak e gli fece venire le lacrime agli occhi, lacrime che scintillavano, che lo accecavano. Le scrollò via ed esse caddero nel mare nero, illuminandolo. Dalle profondità, qualcosa saliva verso di lui. L'acqua prese la forma di una figura che sembrava attenderlo a una certa distanza, là dove lui non poteva andare. Era là, rigida e cristallizzata, e la sua superficie imprigionava la luce delle stelle.

«L'ho trovata», disse la figura.

Non aveva né viso né bocca, ma Anawak conosceva quella voce. Si avvicinò, ma c'era il bordo del ghiaccio e nell'acqua nera nuotava qualcosa di grande che faceva venir voglia di fuggire.

«Che cos'hai trovato?» chiese Anawak.

Fu terrorizzato dalla sua stessa voce. Le parole gli arrivavano a fatica alle labbra, dopo averlo tormentato come animali feroci. Al contrario di quanto pronunciato, o forse solo pensato, dalla figura, le sue parole non attraversarono il perfetto silenzio del paesaggio ghiacciato. D'un tratto un freddo tagliente lo colpì. Cercò con lo sguardo quella cosa nell'acqua, ma era sparita.

«Allora, come va?» gli chiese una voce.

Anawak girò la testa e vide l'esile figura di Samantha Crowe, la ricercatrice del SETI.

«Ti manca la pratica nel parlare», gli disse. «Il resto riesci a farlo meglio. A dire la verità, è terribile!»

«Mi dispiace», balbettò Anawak.

«Sì? Va bene. Forse dovresti iniziare a esercitarti. Ho trovato i miei extraterrestri. Lo sapevi? Finalmente abbiamo stabilito un contatto. Non è meraviglioso?»

Anawak sussultò. Non lo trovava affatto meraviglioso. Aveva una paura terribile degli extraterrestri di Samantha Crowe, e non sapeva perché. «E… chi sono? Che cosa sono?»

La ricercatrice del SETI indicò l'acqua nera oltre il bordo del ghiaccio. «Sono là fuori», disse. «Credo che saranno contenti di conoscerti, perché amano avere contatti. Ma tu dovresti sforzarti un po' di più.»

«Non posso», disse Anawak.

«Non puoi?» Samantha Crowe scosse la testa, perplessa. «Perché non puoi?»

Anawak fissò gli imponenti dorsi scuri che solcavano l'acqua. Erano dozzine, centinaia. Sapeva che erano lì per lui. Improvvisamente comprese che si stavano avvicinando a causa della sua paura. Si nutrivano di paura. «Io… non posso».

«Su, su, non fare il vigliacco. Devi cominciare», replicò Samantha con ironia. «È la cosa più facile del mondo. Per te è molto più facile che per noi. Noi dobbiamo stare in ascolto di tutto il maledetto universo.»

Anawak tremava ancora di più. Si avvicinò al bordo e guardò fuori. All'orizzonte, dove il cielo stellato accoglieva in sé il mare nero, splendeva una luce lontana.

«Va'», disse Samantha.

Ho volato, pensò Anawak. Ho volato attraverso un oceano verde scuro, pieno di vita, e non ho avuto la minima paura. Che cosa può succedere? L'acqua sarà solida come il terreno e io raggiungerò quella luce, trascinato dalla mia volontà. Sam ha ragione. È facile. Non c'è nulla di cui avere paura.

Davanti ai suoi occhi emerse un animale gigantesco, e una colossale coda a due punte si levò contro le stelle.

Nulla di cui avere paura.

Ma aveva esitato troppo e la vista delle pinne caudali l'aveva reso incerto. Né la sua volontà né la forza del sogno lo aiutavano a mettere fuori gioco le leggi della natura. Quando infine fece un passo avanti, sprofondò immediatamente nel gelo del mare, che si richiuse sopra la sua testa. Era tutto nero. Anawak voleva gridare e ingoiò dell'acqua, che entrò dolorosamente nei suoi polmoni.

Sprofondava implacabilmente, annaspando. Il cuore gli batteva all'impazzata, gli martellava nelle tempie, rimbombava come colpi di martello…

Anawak trasalì e batté la testa contro l'asse. «Maledizione», imprecò.

Si sentiva ancora battere. Ma non era più un rimbombo. Anzi era un rumore smorzato, come di nocche sul legno. Si rotolò su un fianco e vide Alicia, che, leggermente chinata in avanti, spiava nella sua cuccetta.

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