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«Non credo che ve la caverete con una nave», intervenne Bohrmann. «Qualche miliardo di vermi sono una biomassa mostruosa. Li dovrete pompare da qualche parte.»

«Questo non è un problema. Possiamo allestire un trasporto pendolare. Mi riferivo alla nave da cui guidare il tubo aspiratore. Se dobbiamo arrivare a quattro-cinquecento metri, allora sarà necessario immagazzinarlo da qualche parte. È un tubo flessibile di mezzo chilometro, pesante come il piombo e un po' più grosso dei cavi sottomarini che si possono arrotolare nella stiva. Inoltre, quando la proboscide viene mossa, la nave deve essere sufficientemente stabile per compensare gli spostamenti. Gli attacchi non sarebbero un problema, ma l'idrostatica nasconde delle insidie. Non si può calare il tubo a sinistra o a destra senza mettere a rischio la stabilità della nave.»

«E se si ricorresse a una nave escavatrice?»

«Non è abbastanza grande.» Il direttore tecnico rifletté. «Forse una nave per le trivellazioni? No, troppo pesante. Sarebbe meglio una piattaforma galleggiante. Stiamo già lavorando a qualcosa del genere. Un sistema di galleggianti… L'ideale sarebbe una costruzione semisommersa, come nella tecnica offshore, solo che non dovrebbe essere ancorata con cavi, ma muoversi come una nave vera. Dev'essere manovrabile.» Si allontanò di qualche passo e cominciò a mormorare qualcosa che riguardava le frequenze di risonanza e l'andamento del moto ondoso. Poi tornò indietro. «Sì, una struttura semisommersa andrebbe bene. Massima stabilità al moto ondoso e ideale per una gru che possa sollevare tutto senza problemi. Al largo della Namibia c'è una cosa del genere che potremo trasformare in fretta.»

«L'Heerema?» disse la donna.

«Già.»

«Ma… Stavamo per scartarla, no?»

«Non è un rottame. L'Heerema dispone di due corpi principali e il ponte poggia su sei colonne. Sì, è del 1978, ma per questo scopo dovrebbe andare. Sarebbe la via più rapida. Non abbiamo una torre di trivellazione, ma due gru. Con una delle due caleremo il tubo. La pompa principale non è un problema. E potremo caricare le navi per portare via i vermi.»

«Mi sembra una buona idea», disse Frost. «E quando potreste cominciare?»

«In condizioni normali, tra sei mesi.»

«E in queste?»

«Non posso promettere nulla. Da sei a otto settimane, se iniziamo immediatamente.» Il direttore tecnico guardò Frost. «Faremo il possibile. Siamo bravi in queste cose. Tuttavia, se ci riusciremo in tempo, consideratelo pure un miracolo.»

Frost annuì. Guardò l'Atlantico, azzurro e splendido. Cercò d'immaginare l'acqua che improvvisamente si alzava fino a seicento metri. «Va bene», mormorò. «In questo momento i miracoli sono particolarmente richiesti.»

PARTE TERZA

Independence

«Sono convinto che — come i fondamenti matematici — i diritti siano universali, indipendentemente dagli uomini, primo fra tutti il diritto alla vita. Il dilemma è: dove sono scritti? E chi altri può permetterseli oltre agli uomini? Ci piacerebbe accettare l'idea che, al di fuori delle nostre percezioni, esistano diritti e valori, ma non possiamo metterci al di fuori delle nostre percezioni. Sarebbe come se il gatto dovesse decidere se il topo può essere mangiato.»

Da Leon Anawak, Autocoscienza e consapevolezza

12 agosto

Mar di Groenlandia

Samantha Crowe appoggiò i suoi appunti e guardò fuori.

Il CH-53 Super Stallion si abbassava velocemente. Una forte brezza scuoteva l'elicottero lungo trenta metri. Sembrava quasi cadere sulla piattaforma in mezzo al mare, e Samantha si domandava come un affare tanto gigantesco potesse stare a galla. Ma, nel contempo, si chiedeva: come si può atterrare su una cosa così piccola?

Più di cinquecento miglia marine a nord-est dell'Islanda, sopra la piana abissale groenlandese, c'era la USS Independence LHD-8, una città galleggiante, strana e irta di strutture, col fascino di un mezzo spaziale uscito da Alien. Due ettari di libertà e novantasettemila tonnellate di diplomazia, così la definiva la Marina. Per le settimane seguenti, la più grande portaerei tattica del mondo sarebbe stata la casa di Samantha Crowe. Per un po' di tempo, il suo indirizzo sarebbe stato: USS Independence LHD-8, 75° latitudine nord, tremilacinquecento metri dal fondale marino.

Il suo compito: condurre una conversazione.

L'elicottero virò. Con un movimento circolare, il Super Stallion si mosse verso il punto di atterraggio e si posò. Attraverso i finestrini laterali, Samantha vide un uomo con una tuta da lavoro gialla che dava indicazioni al pilota. Qualcuno dell'equipaggio la aiutò a slacciarsi la cintura e a indossare casco, cuffie, jacket e occhiali protettivi. Il volo era stato sgradevole e Samantha si sentiva malferma sulle gambe. Con passi incerti scese dall'elicottero, passò sotto la coda del Super Stallion e si guardò intorno.

Sulla pista d'atterraggio c'erano poche persone. Quel vuoto aumentava l'impressione di un posto surreale: una distesa asfaltata, pressoché infinita, punteggiata di fortificazioni, lunga 257,25 metri e larga 32,6. Samantha Crowe lo sapeva con precisione. Era una scienziata col debole per i numeri esatti, quindi aveva cercato di sapere tutto il possibile sulla USS Independence, ma in quel caso la teoria capitolava di fronte alla realtà. La vera Independence non aveva nulla a che vedere coi disegni dei progetti e i dati tecnici. Nell'aria aleggiava un intenso odore di petrolio e kerosene, cui si mischiavano quello di gomma calda e sale. Il ponte era spazzato da un vento violento che sembrava strapparle la tuta.

Non era un luogo per viaggi di piacere.

C'erano uomini con giubbotti colorati e cuffie antirumore che correvano da tutte le parti. Uno le andò incontro, mentre alcuni soldati scaricavano il suo bagaglio. Avevano un giubbotto bianco. Samantha cercò di ricordare. Il bianco era il colore dei responsabili della sicurezza. Quelli in giallo dirigevano il traffico degli elicotteri sul ponte, quelli vestiti di rosso si occupavano del carburante e delle armi. E in marrone non c'era nessuno? E in lilla? Di che cosa si occupavano quelli in marrone?

Il freddo le entrò fin sotto la pelle.

«Mi segua», gridò l'uomo per sovrastare il fragore dei rotori che si stavano fermando. Indicò l'unica costruzione della portaerei. Pareva un condominio ed era sormontata da antenne e da enormi parabole. Mentre seguiva il suo accompagnatore, Samantha si toccò meccanicamente il fianco con la mano destra. Poi le venne in mente che, con indosso la tuta, non poteva prendere le sigarette. Non aveva potuto fumare neanche sull'elicottero. Volare sull'Artico col vento forte per lei non era un problema, ma l'astinenza da nicotina non riusciva a reggerla.

L'uomo aprì un portellone e lei entrò nell'«isola», come veniva chiamato quell'edificio nel gergo della Marina. Dopo avere oltrepassato una doppia paratia, si trovò a respirare aria fresca e pulita, ma non riuscì a cancellare la sensazione di soffocamento che quel luogo le comunicava. L'uomo della sicurezza la affidò a un gigantesco uomo di colore, che indossava un uniforme e che si presentò come maggiore Salomon Peak. Si strinsero la mano. Peak sembrava molto rigido, come se non fosse abituato a trattare coi civili. Nelle ultime settimane, Samantha aveva parlato spesso con lui, ma solo per telefono. Attraversarono un corridoio tortuoso e scesero attraverso ripide scalette nella parte più interna della nave, seguiti da due soldati col bagaglio. Su una parete spiccava a grandi lettere l'indicazione LIVELLO 2.

«Sicuramente vorrà darsi una rinfrescata», disse Peak, aprendo una porta identica alle numerose altre che si allineavano sui due lati del corridoio. Apparve così una stanza incredibilmente spaziosa e ben arredata, quasi una piccola suite. Samantha aveva letto che, su una portaerei, lo spazio privato era ridotto al minimo e che i soldati dormivano in camerate.

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