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Si chiese cosa fosse successo. Quella non era la deprimente Iqaluit degli anni '70. Le persone lo salutavano con gentilezza in inuktitut. Lui rispondeva al saluto in modo asciutto. Senza mai fermarsi, camminò attraverso la città e andò all'Unikkaarvik Visitor Information Centre, dove trovò una copia ancora più imponente del danzatore col tamburo.

Il danzatore col tamburo… Quelle danze risalivano alla sua infanzia. A molto tempo prima, quando le cose erano ancora a posto.

Che sciocchezza! Quando mai le cose lì sono state a posto?

Ritornò sulla strada e continuò a camminare. Faceva sempre più caldo e la luce del sole aveva una qualità cristallina. Effettivamente, la chiesa anglicana sembrava un igloo, con una punta tesa verso l'alto. La lasciò alla sua sinistra. Dopo un'ora, era di nuovo all'aeroporto e si sedette su una panca con un giornale per ingannare l'attesa del volo. Oltre a lui, c'era solo la coppia che aveva visto poco prima. Aprì il giornale in modo che lo riparasse dalle sollecitazioni esterne, lesse gli articoli senza coglierne il contenuto, e alla fine lo gettò via.

La ragazza dello sportello li invitò a seguirla. Attraverso un'uscita secondaria arrivarono sulla pista, dove li attendeva un bimotore a elica, un Piper. Anawak salì con la coppia i due gradini che conducevano nella stretta cabina. L'aereo aveva solo sei posti e i bagagli erano sistemati nella parte posteriore, dietro una rete. Non c'era una vera e propria separazione tra la cabina di pilotaggio e lo spazio per i passeggeri. Rullarono sulla pista di decollo, dovettero attendere l'atterraggio di un aereo simile al loro, poi, dopo una breve corsa, si sollevarono, traballando. L'aeroporto divenne sempre più piccolo e poi sparì. Sotto di loro, luccicava la Frobisher Bay. Superando montagne ancora in parte coperte di neve e sfaccettate di ghiacciai, volarono verso ovest. A sinistra, la luce del sole risplendeva sullo stretto di Hudson; a destra, si rifrangeva su un lago… Amadjuak Lake, ricordò improvvisamente Anawak.

C'era stato qualche volta.

Quante cose gli stavano tornando in mente. I ricordi si manifestavano come ombre in una tormenta di neve e lo trascinavano nel passato.

Non voleva tornare laggiù. La terra divenne sempre più piatta, poi finì. Per venti minuti la loro rotta li portò sul mare, poi, dal finestrino della cabina, ricomparve un territorio montagnoso. Nel campo visivo entrò la baia di Tellik Inlet, con le sue sette isole. Su una di esse si stendeva la linea sottile della pista di atterraggio di Cape Dorset.

Atterrarono.

Anawak ebbe l'impressione che il cuore volesse balzargli fuori dal petto. Era a casa. Era là dove non avrebbe mai voluto tornare. Mentre il Piper rullava verso l'edificio dell'aeroporto, dentro di lui avversione e curiosità si mescolavano con la paura.

Cape Dorset… Coi suoi milleduecento abitanti era definita, un po' con meraviglia e un po' per scherzo, la New York del nord, ed era uno dei principali centri dell'arte inuit.

O, meglio, lo era diventata.

Un tempo non era così.

Cape Dorset… Kinngait, «grande montagna», nella lingua degli inuit, situata nell'ampia zona di Sikusiilaq, «dove sul mare non c'è ghiaccio», perché, anche negli inverni più rigidi, le correnti tiepide impedivano che, intorno alla penisola di Foxe, braccio sudoccidentale dell'isola di Baffin, il mare si gelasse completamente. I nomi si riversavano nel cervello di Anawak. Là c'era quell'isoletta nei pressi di Cape Dorset, Mallikjuaq, una zona naturale protetta, piena di piccole meraviglie, con le trappole per volpi del XIX secolo, resti dell'antichissima cultura thule, tombe avvolte nella leggenda e un lago romantico, sulle cui rive aveva campeggiato spesso. Anawak ricordò il piccolo pontile dei kajak. Era un posto in cui andava volentieri, Mallikjuaq. Poi nei ricordi comparvero suo padre e sua madre, e lui riscoprì cosa l'aveva allontanato da quella terra che, allora, non si chiamava ancora Nunavut, bensì Territori del nord-ovest.

Prese lo zaino e scese dal Piper.

Un uomo si precipitò verso la coppia. Evidentemente si conoscevano. Il saluto fu calorosissimo, com'era solito tra gli inuit. Nel loro vocabolario c'erano moltissime parole per salutare, ma nessuna per dire «addio». Diciannove anni prima, nessuno aveva detto ad Anawak una parola di commiato, neppure l'uomo piccolo e segnato dal tempo che era apparso improvvisamente sulla pista non appena la coppia e il loro amico indigeno se n'erano andati, chiacchierando. In un primo momento, Anawak faticò a riconoscerlo. Ijitsiaq Akesuk era evidentemente invecchiato e aveva un paio di baffi grigi e sottili che prima non portava. Però era lui. Il viso solcato da rughe si allargò in un sorriso. Andò in fretta verso Anawak e lo abbracciò, stringendo tra le braccia pure lo zaino. Dalle sue labbra sgorgò un fiume di parole in inuktitut. Poi se ne rese conto e, in inglese, disse:

«Leon, ragazzo mio. Ma che bel giovane dottore sei».

Anawak si lasciò abbracciare e diede qualche pacca sulle spalle di Akesuk. «Zio Iji, come stai?»

«Come vuoi che stia, con tutto quello che succede? Hai fatto un buon volo? Devi aver viaggiato per un'eternità, chissà dove hai dovuto fare scalo per arrivare qui…»

«Ho dovuto cambiare aereo un paio di volte.»

«Toronto? Montreal?» Akesuk si staccò e lo guardò, raggiante. Anawak notò le fessure tra i denti, tipiche degli inuit. «Montreal, naturalmente. È stato un viaggio lungo, vero? Sono contento. Mi devi raccontare tante cose. Ovviamente starai da me, ragazzo mio, è già tutto pronto. Hai altro bagaglio?»

«No. Ehm, zio Iji…»

«Iji, solo Iji, lascia perdere lo zio. Sei troppo grande per dire zio.»

«Ho prenotato in un hotel.»

Akesuk indietreggiò di un passo. «E dove?»

«Al Polar Lodge.»

Per un secondo il vecchio sembrò deluso. Ma si riscosse subito. «Annulliamo la prenotazione. Conosco il direttore. Lo sai, qui ci conosciamo tutti. Non c'è problema.»

«Non voglio crearti disturbo», disse Leon. Sono qui per portare mio padre sotto il ghiaccio, pensò. E per sparire il più in fretta possibile.

«Tu non mi disturbi», disse Akesuk. «Sei mio nipote. Per quanto tempo hai prenotato?»

«Due notti. Credo siano sufficienti, no?»

Akesuk aggrottò la fronte e lo squadrò dall'alto in basso. Poi prese Anawak per un braccio e lo trascinò via. «Ne riparleremo. Hai fame?»

«Eccome.»

«Magnifico. Mary-Ann ha preparato uno stufato di caribù e c'è anche zuppa di foca con riso. Una cosa squisita. Quand'è l'ultima volta che hai mangiato zuppa di foca?»

Anawak si lasciava trascinare dallo zio. Davanti all'edificio dell'aeroporto c'erano diversi veicoli parcheggiati. Akesuk si diresse deciso verso un pick-up.

«Metti lo zaino lì dietro. Conosci Mary-Ann? Ovviamente no. Te ne eri già andato quando lei è arrivata da Salluit e ci siamo sposati. Stare solo era diventato insopportabile. È più giovane di me. E devo dire che penso sia bene così. Tu sei sposato? Oh, santo cielo, quante cose dobbiamo raccontarci. È un'eternità che non vieni qui.»

Anawak s'infilò sul sedile del passeggero e rimase in silenzio. Sembrava che Akesuk avesse proprio deciso di sfinirlo con le chiacchiere. Cercò di ricordarsi se anche prima il vecchio era così logorroico.

Poi comprese che lo zio doveva essere nervoso quanto lui.

Uno taceva. L'altro parlava. Ognuno aveva il proprio modo di reagire.

Imboccarono la strada principale. Cape Dorset era diviso da catene montuose in diverse località. Al Kinngait vero e proprio si affiancavano a nord-est Itjuritruq, a ovest Kuugalaaq e Muliujaq a sud. La famiglia di Anawak aveva vissuto a Kuugalaaq. Akesuk, il fratello della madre di Anawak, aveva la casa a Kinngait.

Anawak si chiese se abitasse ancora là. L'avrebbe scoperto tra poco.

Girarono per tutto il paese. Lo zio gli illustrava quasi ogni edificio e, a un certo punto, Anawak comprese che gli stava facendo fare una specie di gita turistica. «Zio Iji, le conosco queste cose», disse.

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