«Tu non conosci niente. È da diciannove anni che non vieni qui. Ci sono molte cose nuove. Là dietro, ti ricordi il supermercato?»
«No.»
«Vedi. E come potresti? È tutto nuovo! E ne abbiamo anche uno più grande. Prima andavamo sempre al Polar Supply Store, non l'hai dimenticato, vero? Là c'è la nuova scuola… Be', non è così nuova, ma per te lo è. Guarda a destra. Quello non lo puoi conoscere: è il salone per le feste Tiktaliktaq. Sai chi è stato qui per ascoltare il 'throat singing' e vedere le danze col tamburo? Bill Clinton, Jacques Chirac e Helmut Kohl… È davvero un gigante quel Kohl, vicino a lui sembravamo degli gnomi, quand'è che è stato qui, aspetta…»
E così via. Visitarono la chiesa anglicana col cimitero in cui doveva essere seppellito suo padre. Anawak vide davanti a una casa una donna inuit, che stava lavorando a una statua, rappresentante un gigantesco uccello. Lo stile gli ricordò quello delle raffigurazioni tipiche degli indiani nootka. Un edificio grigio e blu a due piani e con un ingresso futurista si rivelò essere la sede del governo. L'amministrazione decentrata del Nunavut prevedeva che in ogni grande comune ci fosse un edificio simile. Anawak si arrese, trovandosi costretto ad ammettere che Cape Dorset era molto cambiata da quand'era bambino.
E d'un tratto, senza quasi rendersene conto, disse: «Vai al porto, Iji».
Akesuk sterzò bruscamente. Percorsero una strada in ripida pendenza. Case di legno di tutte le dimensioni e di tutti i colori erano distribuite in maniera evidentemente casuale nel paesaggio nero e marrone. Si vedevano alcune aree isolate con l'erba della tundra e, di tanto in tanto, una superficie innevata. Il porto di Cape Dorset era poco più di un pontile con delle gru, dove un paio di volte l'anno le navi che trasportavano i beni necessari per la sopravvivenza gettavano l'ancora. Non lontano, con la bassa marea, si poteva attraversare il Tellik Inlet per raggiungere l'isola vicina, Mallikjuaq, dove c'era il Mallikjuaq Territorial Park, con le sue tombe, il pontile dei kajak e il lago. Avevano campeggiato spesso lì.
Si fermarono. Anawak scese, percorse il pontile e guardò verso l'acqua azzurra. Akesuk lo seguì per un tratto, ma non si avvicinò.
Il molo era l'ultima cosa che Anawak aveva visto lasciando Cape Dorset. Non con l'aereo, ma con una nave. Aveva dodici anni. La nave aveva preso con sé lui e la sua nuova famiglia, che, piena di speranza e di attesa per il nuovo mondo, lasciava quella terra, provando già nostalgia per quel paradiso tra i ghiacci, un paradiso perduto da ormai molto tempo.
Dopo cinque minuti, Anawak tornò indietro a passi lenti e risalì sul pick-up senza dire una parola.
«Sì, il nostro vecchio porto», mormorò Akesuk. «Il vecchio porto. Non lo dimenticherò mai. È da qui che te ne sei andato. Ha spezzato il cuore a tutti…»
Anawak gli rivolse uno sguardo tagliente. «A chi si è spezzato il cuore?» chiese.
«Ma sì, a tuo…»
«A mio padre? A voi? A qualche vicino?»
Akesuk accese il motore. «Vieni», disse. «Andiamo a casa.»
Akesuk non aveva cambiato casa: abitava ancora in un piccolo complesso residenziale, grazioso e curato, con la facciata azzurra e il tetto blu scuro. Alle sue spalle, le colline salivano dolcemente e culminavano nel Kinngait, la «grande montagna», i cui versanti erano segnati da venature di neve. Nei ricordi di Anawak, il Kinngait — più una tozza catena montuosa che una vera montagna — svettava nel cielo. E, per un attimo, lui fu tentato di andarlo a esplorare.
Benché fosse piccolo e mingherlino, Akesuk riuscì a prendere lo zaino dal piano di carico prima di Anawak, e tenendolo con una mano, con l'altra aprì di slancio la porta di casa. «Mary-Ann!» gridò. «È arrivato! Il ragazzo è qui!»
Apparve un cagnolino che avanzò goffamente. Akesuk gli passò davanti, sparì all'interno e ricomparve dopo qualche secondo in compagnia di una donna grassoccia, il cui volto cordiale poggiava su un imponente doppio mento. Abbracciò Anawak e lo salutò in inuktitut.
«Mary-Ann non parla inglese», si scusò Akesuk. «Spero che tu capisca ancora la tua lingua.»
«La mia lingua è l'inglese», disse Anawak.
«Sì, naturalmente… Ormai.»
«Ma riesco ancora a capire.»
Mary-Ann gli chiese se aveva fame.
Anawak disse di sì in inuktitut. La donna scoprì una dentatura con molti buchi e, prendendo in braccio il cagnolino che stava annusando gli scarponi di Anawak, gli fece cenno di seguirla. Nell'anticamera c'erano diverse paia di scarpe. Anawak si sfilò meccanicamente i suoi scarponcini da trekking e li posò a fianco delle altre.
«Vedo che non hai dimenticato la buona educazione», sorrise lo zio. «Non sei diventato un qallunaaq.»
Qallunaaq - al plurale qallunaat - era il nome dato ai non inuit. Anawak guardò in basso, si strinse nelle spalle e seguì Mary-Ann in cucina, dove c'erano un moderno fornello elettrico e vari elettrodomestici, come in qualsiasi appartamento di Vancouver. Nulla ricordava le desolanti condizioni di quella che era stata casa sua. Sotto la finestra c'era un tavolo rotondo e, di fianco, una porta che conduceva sul balcone. Akesuk scambiò qualche parola con la moglie, poi condusse Anawak in un salotto arredato in modo accogliente. Mobili massicci si raggruppavano in una sorta di torre, in cui erano incassati il televisore, il videoregistratore, la radio e il lettore CD. Un passavivande si apriva sulla cucina. Akesuk gli mostrò il bagno, l'adiacente spazio per la lavatrice, la dispensa, la stanza da letto e una piccola camera con un letto a una piazza. Sul comodino c'erano dei fiori freschi: papaveri artici, sassifraghe purpuree e campanule.
«Li ha raccolti Mary-Ann», disse Akesuk. Suonava come un invito a mettersi comodo.
«Grazie, io…» Anawak scosse la testa. «Credo sia meglio che dorma all'hotel.»
Si aspettava che lo zio si offendesse, ma Akesuk sembrò semplicemente riflettere un po'. «Un drink?» chiese poi.
«Non bevo.»
«Neanch'io. Durante i pasti beviamo succo di frutta. Ne vuoi?»
«Sì, volentieri.»
Akesuk miscelò in due bicchieri succo concentrato e acqua, poi andarono con le bibite sul balcone, dove lo zio si accese una sigaretta. Mary-Ann non era ancora soddisfatta della cottura del suo stufato e aveva detto che non sarebbe stato pronto prima di un quarto d'ora.
«Non posso fumare in casa», spiegò Akesuk. «Quando ci si sposa, succedono cose del genere. Ho fumato in casa per una vita… Ma è meglio così. Non è sano. Se solo riuscissi a smettere…» Sorrise e aspirò il fumo con evidente piacere. «Fammi indovinare, tu non fumi.»
«No.»
«E non bevi. Bene, bene.»
Rimasero per un po' in silenzio, a guardare il panorama delle montagne con le loro venature di neve. Nel cielo brillavano nuvole striate. Appena sotto, volavano gabbiani d'avorio di un bianco splendente e, di tanto in tanto, si lanciavano in basso.
«Com'è morto?» chiese Anawak.
«È caduto», rispose Akesuk. «Ha visto una lepre, l'ha voluta rincorrere ed è caduto.»
«L'hai riportato indietro tu?»
«Il suo corpo, sì.»
«Era ubriaco fradicio?» Il tono amaro con cui aveva posto quella domanda lo spaventò.
Akesuk continuava a guardare le montagne, avvolto dal il fumo. «Ha avuto un infarto… Così ha detto il dottore di Iqaluit. Si muoveva poco e fumava troppo. Erano dieci anni che non beveva neppure un goccio.»
Lo stufato di caribù era squisito: aveva il sapore della sua infanzia. Invece la zuppa di foca non gli era mai piaciuta, ma ne prese una porzione abbondante. Mary-Ann aveva un'espressione soddisfatta. Anawak cercò di riprendere confidenza col suo inuktitut, ma il risultato fu pietoso. Capiva quasi tutto, però faticava a parlarlo. Così conversarono prevalentemente in inglese sugli avvenimenti delle ultime settimane, sugli attacchi delle balene, sulla catastrofe in Europa e su tutto quello che giungeva fino nel Nunavut. Akesuk traduceva. Più volte lui cercò di portare la conversazione sul padre, ma Anawak non lo seguì. La sepoltura era prevista per il pomeriggio nel piccolo cimitero della chiesa anglicana. In quella stagione, i morti venivano seppelliti in fretta, mentre durante l'inverno venivano spesso custoditi in una capanna vicina al cimitero, perché la terra era troppo dura per scavare la tomba. Nel freddo naturale dell'Artico, i corpi si conservavano a lungo, ma le capanne in cui venivano tenuti dovevano essere sorvegliate. Il Nunavut era selvaggio. Lupi e orsi polari, spinti dalla fame, non si fermavano di fronte ai vivi e neppure di fronte ai morti.