Dopo il pasto, Anawak si trasferì al Polar Lodge. Akesuk non aveva insistito perché si fermasse a casa sua. Si era limitato a togliere i fiori dalla piccola camera e a posarli sul tavolo, dicendo: «Puoi sempre ripensarci…»
Al funerale mancavano ancora due ore, ma Anawak non lasciò la sua stanza d'albergo. Rimase sdraiato nel letto, cercando di dormire un po'. Non sapeva cosa fare… No, a dire la verità lo sapeva. Poteva andare a Mallikjuaq e forse anche oltre; il Tellik Inlet era ancora ghiacciato e avrebbe retto il suo peso. Oppure poteva rivolgersi ad Akesuk, che sicuramente sarebbe stato entusiasta di portarlo in giro per Cape Dorset e presentarlo a tutti. In un insediamento inuit tutti erano in qualche modo imparentati. E specialmente a Cape Dorset, la capitale mondiale dell'arte inuit, un simile giro sarebbe stato come partecipare a un vero e proprio vernissage. Un abitante dell'insediamento su due era considerato un artista e molti esponevano i loro lavori nelle gallerie di tutto il mondo. Ma Anawak sapeva che si sarebbe sentito un po' come il figliol prodigo, perché le persone che avrebbe incontrato erano sicure che non sarebbe mai tornato lì. Era fermamente deciso a mantenere una distanza di sicurezza e non voleva che si riaprissero antiche ferite, permettendo che qualcosa di quel mondo entrasse nel suo animo. Quindi rimase sdraiato sul letto a fissare il soffitto e, a un certo punto, si appisolò.
La sveglia da viaggio lo strappò dal sonno.
Quando uscì dalla hall del Polar Lodge, il sole era visibilmente più basso, ma splendeva sempre luminoso e gradevole. Al di sopra dei lastroni di ghiaccio dell'Inlet si vedeva Mallikjuaq; sembrava quasi di poterla toccare. Il Polar Lodge era all'estremità nordorientale di Cape Dorset, il cimitero dalla parte opposta del paese. Anawak guardò l'orologio. C'era tempo sufficiente. Era d'accordo con Akesuk che l'avrebbe raggiunto a casa e poi sarebbero andati insieme col pick-up. Vicino al Polar Lodge, sulla strada che conduceva alla spiaggia, c'era il Polar Supply Store. Avvicinandosi a esso, Anawak si accorse che il negozio era diventato anche la sede di una società di spedizioni, un autonoleggio e un'officina. L'edificio era come lo ricordava, ma l'insegna era nuova. Entrò e non riconobbe i due uomini che stavano dietro il banco. Non erano inuit. Curiosò nel negozio, accogliente e pieno di cianfrusaglie: c'era praticamente di tutto, dalla carne secca di caribù agli stivali. Nella parte più interna erano accatastate litografie e sculture.
Non era il suo mondo.
Uscì e si avviò verso il centro. Davanti a una casa vide un vecchio, seduto su un cavalletto, che lavorava alla statuetta di un sommozzatore; un po' più avanti, c'era una donna impegnata a levigare un falco di marmo bianco. Entrambi lo salutarono e lui rispose al saluto senza fermarsi, ma avvertendo che i loro sguardi lo seguivano. La notizia del suo arrivo doveva essersi diffusa in un baleno. Non sarebbe stato necessario presentarsi. Sapevano tutti che il figlio del defunto Manumee Anawak era arrivato a Cape Dorset, e probabilmente stavano già commentando il fatto che dormiva in un hotel e non a casa dello zio.
Akesuk lo aspettava davanti alla casa. Percorsero le poche centinaia di metri fino alla chiesa anglicana, dove si era già radunato un nutrito gruppo di persone.
Anawak chiese se fossero tutti lì per suo padre.
Akesuk lo guardò, sbalordito. «Certo, cosa pensavi?»
«Non sapevo che avesse tanti…»
«Sono le persone con cui viveva. Che importanza ha se sono amici o no? Quando muore qualcuno, la cosa riguarda tutti, e tutti fanno con lui l'ultimo tratto di strada.»
Il funerale fu breve e composto. Prima della cerimonia, Anawak aveva dovuto stringere molte mani. Gente che non aveva mai visto gli si era presentata davanti e lo aveva abbracciato. Quindi il pastore lesse un passo della Bibbia e recitò una preghiera, poi la bara fu calata in una fossa profonda giusto il necessario per contenerla, e venne ricoperta con un telo di plastica blu. Alcuni uomini cominciarono ad ammassarci sopra delle pietre. La croce all'estremità della fossa venne infilata un po' storta nel terreno duro, come tutte le altre croci nel cimitero. Akesuk mise tra le mani di Anawak una piccola cassa di legno col coperchio di vetro, in cui erano chiusi alcuni fiori artificiali, un pacchetto di sigarette e il dente di un orso incastonato nel metallo. Gli diede una spintarella, e Anawak, obbediente, si affrettò verso la tomba e depose la cassa sotto la croce.
Akesuk gli aveva chiesto se voleva vedere il padre per l'ultima volta, ma Anawak aveva rifiutato. Mentre il pastore leggeva la Bibbia, lui aveva cercato d'immaginare chi fosse l'uomo nella bara e soprattutto se, in quella bara, ci fosse davvero qualcuno. Poi, improvvisamente, si era reso conto che suo padre non avrebbe potuto commettere altri errori. Ormai si trovava in uno stato di non-vita, quindi era andato oltre l'innocenza e la colpa. Di fronte a quella semplice bara, qualunque cosa lui avesse fatto o non fatto perdeva ogni significato. Per Anawak, tuttavia, le azioni del padre non avevano più importanza ormai da molto tempo. Per lui, quell'uomo era già morto da parecchio. Da così tanto che quel funerale gli appariva del tutto superfluo.
Non si sforzò di provare qualche sentimento. Desiderava solo andarsene il più in fretta possibile.
Tornare a casa.
Ma dov'era casa sua?
Improvvisamente, mentre il gruppo intonava un canto, fu preso da una gelida sensazione di abbandono e di panico. Non era il freddo artico a farlo tremare. Aveva pensato a Vancouver e a Tofino, ma né l'una né l'altro erano la sua casa.
Anawak stava guardando in un buco nero.
Il suo campo visivo si restrinse e numerose spirali presero a vorticargli davanti agli occhi. Il buio gli piombò addosso, come un'onda gigantesca cui non poteva sfuggire. Era finito in trappola, come un animale, senza via di fuga, costretto a fissare quel vuoto che lo avvolgeva.
«Leon.»
Fu attraversato da una vertigine carica di terrore.
«Leon!»
Akesuk l'aveva afferrato per il braccio. Anawak, sconvolto, guardò quel volto rugoso coi baffi color argento.
«Tutto a posto, ragazzo?»
«Sì, certo», mormorò.
«Buon Dio! Riesci appena a reggerti sulle gambe», mormorò Akesuk, impietosito. Gli altri li fissavano.
«Sto bene. Grazie Iji, è passata.»
Nelle facce dei presenti, Anawak scorse soltanto indifferenza. Quegli uomini erano lì e contemporaneamente a chilometri di distanza. Il cordoglio nei loro occhi era puramente formale. Davanti alle tombe delle persone amate si crolla. Crollano anche gli inuk, benché siano così orgogliosi da non capitolare davanti a niente e a nessuno.
A parte, forse, davanti all'alcol e alle droghe.
Anawak stava male.
Si girò e lasciò il cimitero a rapide falcate. Lo zio non lo trattenne. Davanti alla chiesa, quando si sentì sotto i piedi l'asfalto della strada, fu preso dal bisogno di correre via, ma si trattenne. Fece qualche passo, col cuore che batteva tumultuosamente. Voleva fuggire, ma non sapeva dove. Non aveva una direzione.
Cenò al Polar Lodge. Mary-Ann aveva preparato da mangiare, ma Anawak aveva detto allo zio che voleva stare da solo. Il vecchio si era limitato ad annuire, l'aveva accompagnato all'hotel e poi si era allontanato con aria triste. Ma la sua tristezza era dovuta al fatto di essersi reso conto che la richiesta di Anawak non era motivata dal desiderio di un po' di quiete e di raccoglimento.
Anawak rimase disteso su uno dei due letti singoli della stanza, fissando il televisore acceso per ore intere. Si domandò come avrebbe potuto sopportare un altro giorno a Cape Dorset senza che incordi lo travolgessero. Aveva prenotato per due notti, convinto che ci fossero delle formalità da sbrigare, ma Akesuk si era già occupato di tutto. In fondo, la sua presenza era inutile. Poteva anche partire subito.