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Nessuno parlò.

Vanderbilt lo fissò. Le sue guance cadenti presero a tremare. Anzi fremeva tutto, come se fosse scosso da una risata, che sarebbe esplosa contro Johanson come la raffica di un plotone di esecuzione. Le labbra carnose sussultarono. Vanderbilt aprì la bocca.

«La sua idea mi ha illuminato», intervenne Judith Li.

Era come se qualcuno avesse piantato un coltello nella schiena del vice direttore della CIA. La sua bocca si richiuse. Trasalì violentemente e guardò la donna, sbigottito. «Non dirà sul serio», ansimò.

«E invece sì», ribatté lei tranquilla. «Non ho detto che il dottor Johanson ha ragione, però mi sembra sensato starlo ad ascoltare. Credo che potrà spiegare la sua tesi.»

«Grazie, generale», disse Johanson con un inchino appena accennato. «In effetti posso farlo.»

«Allora le propongo di andare avanti. Cerchi di essere sintetico, in modo da arrivare rapidamente alla discussione.»

Vanderbilt sembrava sotto shock. Johanson fece scorrere lo sguardo sui presenti, cercando però di mantenere un'aria tranquilla, così da non dare l'idea di essere preoccupato delle reazioni. Quasi nessuno mostrava un'evidente disapprovazione. La maggior parte dei volti era pietrificata dalla sorpresa; alcuni sembravano affascinati, altri increduli, altri ancora erano privi di espressione. Ora doveva fare il secondo passo. Quegli uomini dovevano comprendere il suo pensiero e svilupparlo autonomamente.

«Nei giorni e nelle settimane appena trascorse, il nostro problema principale è stato mettere in relazione i singoli avvenimenti», riprese. «Sembrava non ci fosse nessun legame, finché non siamo incappati in quella sostanza gelatinosa che si distruggeva all'aria. Purtroppo questa scoperta ha aumentato ulteriormente la confusione, perché abbiamo trovato la sostanza nei granchi e nei mitili, ma anche nella testa delle balene, quindi in esseri diversi tra loro. L'unica spiegazione possibile è una sorta di epidemia. Un aspergillo, una sostanza che provocava la rabbia, qualcosa di simile alla BSE. Ma questo non spiega gli affondamenti delle navi o il fatto che i granchi portino con sé delle alghe killer. E i vermi sulla scarpata continentale non hanno nulla di gelatinoso. In compenso, però, trasportano batteri che ossidano il metano e sono responsabili della fuoriuscita in grandi quantità di gas e, non da ultimo, dello scivolamento del margine continentale e quindi dello tsunami. Nel frattempo, in ampie parti del mondo sono comparsi organismi evidentemente soggetti a mutazione e banchi di pesci che si comportano contro la loro natura. Tutto ciò non sembra del tutto irrelato. Jack Vanderbilt ha assolutamente ragione quando parla della responsabilità di uno spirito pianificatore. Ma sottovaluta il fatto che gli scienziati non hanno sufficienti conoscenze degli ecosistemi marini per poterli manipolare in quel modo. Si dice che sappiamo molto più dell'universo che degli abissi marini. È vero. Però bisognerebbe completare l'affermazione, spiegando che nello spazio possiamo muoverci e vedere meglio che nei mari. Il telescopio Hubble scruta instancabilmente nelle galassie sconosciute. Invece, nell'acqua, anche i più potenti proiettori del mondo riescono a illuminare al massimo una zona di una dozzina di metri. Un uomo con una tuta spaziale si può muovere quasi ovunque nell'universo, ma un sommozzatore, a una certa profondità, viene schiacciato, anche con una tuta high-tech. I mezzi sottomarini, gli AUV e i ROV, funzionano solo a certe condizioni. In definitiva, non possediamo né le attrezzature tecniche né le doti fisiche per piazzare sugli idrati miliardi di vermi, e tantomeno disponiamo delle conoscenze necessarie per allevarli in funzione di un mondo che conosciamo appena. I cavi sottomarini sono stati distrutti, e non soltanto a causa dello smottamento. Dagli abissi risalgono banchi di molluschi e meduse. Sì, è giusto, per spiegare questi fenomeni ci aiuta mettere in gioco uno spirito pianificatore, ma dobbiamo essere coerenti sino in fondo: tutto quello che succede, infatti, può accadere perché, laggiù, qualcuno conosce quell'ambiente almeno quanto noi conosciamo quello in superficie. Intendo qualcuno che vive là e che ha assunto un ruolo dominante nel proprio universo.»

«Ho capito bene?» gridò Rubin, eccitato. «Lei sta dicendo che dividiamo questo pianeta con un'altra specie intelligente?»

«Sì. Lo credo.»

«Se è così, perché finora non abbiamo mai visto o sentito qualcosa di questa specie?» chiese Peak.

«Perché non esiste», sbottò Vanderbilt.

«Sbagliato.» Johanson scosse energicamente la testa. «Ci sono almeno tre motivi. Primo, la legge del pesce invisibile.»

«Come?»

«La maggior parte degli esseri viventi degli abissi, nel senso classico del termine, non vede quanto vediamo noi in quell'ambiente, ma ha sviluppato altri organi di senso che sostituiscono la vista. Essi reagiscono alla più lieve variazione di pressione. Le onde sonore li raggiungono da centinaia e migliaia di chilometri. Ogni mezzo subacqueo viene percepito molto prima che il suo equipaggio possa vedere qualcosa. Teoricamente, in una zona potrebbero vivere milioni di pesci di una determinata specie, ma, se rimangono nell'oscurità, non ne vedremo mai neanche uno. E qui abbiamo a che fare con un essere intelligente! Non potremo osservarlo finché non sarà lui a volerlo. Il secondo motivo è che non abbiamo idea dell'aspetto di questo essere. Abbiamo riprese video di misteriosi fenomeni, la nuvola blu, la scarica che sembra un fulmine, la 'cosa' sulla scarpata continentale norvegese. Sono espressioni di un'intelligenza sconosciuta? Che cos'è quella gelatina? Cosa sono i rumori che Murray Shankar non riesce a classificare? E c'è un terzo motivo. Un tempo, si credeva che fossero abitati solo gli strati superiori del mare, quelli attraversati dai raggi solari. Ora sappiamo che la vita brulica in ogni strato. C'è vita anche a undicimila metri di profondità. Per molti organismi degli abissi, non c'è un solo motivo per trasferirsi verso la superficie. La maggior parte non potrebbe neppure, perché l'acqua sarebbe troppo calda, la pressione troppo bassa e non ci sarebbe il nutrimento di cui hanno bisogno. Noi, al contrario, abbiamo esplorato solo gli strati superficiali dell'acqua e, negli abissi, ci sono state solo alcune persone in batiscafi corazzati e qualche robot. Se vogliamo paragonare queste escursioni occasionali al famoso ago nel pagliaio, dobbiamo immaginare un pagliaio grande come tutto il pianeta. Sarebbe come se degli extraterrestri mandassero sulla Terra delle navi spaziali con telecamere i cui obiettivi possono riprendere solo quello che vedono in una zona di pochi metri. Una di esse riprende un pezzo di steppa della Mongolia, un'altra fa un'istantanea sul Kalahari e una terza viene calata sull'Antartico. Un'altra nave spaziale arriva a Central Park, a New York, dove riprende un pezzo di manto erboso e un cane che fa pipì contro un albero. A che conclusione arriverebbero gli extraterrestri? Un pianeta inabitabile, su cui si trovano sporadiche forme di vita primitive.»

«E la loro tecnologia?» chiese Sue Oliviera. «Devono possedere una tecnologia per poter mettere in piedi tutto ciò.»

«Ho riflettuto anche su questo», rispose Johanson. «Credo che esista un'alternativa a una tecnologia come la nostra. Noi elaboriamo materie morte per farne apparecchi, case, mezzi di locomozione, radio, vestiti e così via. Ma l'acqua marina è molto più aggressiva dell'aria. Laggiù conta solo una cosa: l'adattamento ottimale. E, in genere, le forme di vita sono ottimamente adattate, quindi potremmo immaginare una biotecnologia pura. Se presupponiamo un'intelligenza evoluta, potremo attribuirle una notevole creatività e una precisa conoscenza della biologia degli organismi marini. Voglio dire, cosa facciamo noi? Gli uomini sfruttano da secoli le altre forme di vita. I cavalli sono motociclette viventi. Annibale ha valicato le Alpi con mezzi pesanti biologici. Gli ammali vengono continuamente addestrati. Oggi vengono anche modificati geneticamente. Cloniamo le pecore e produciamo mais geneticamente modificato. Che succede se sviluppiamo sino in fondo questa idea? Arriviamo a una specie che ha sviluppato la propria cultura e la propria tecnologia esclusivamente su basi biologiche! Semplicemente alleva ciò di cui hanno bisogno. Per la vita quotidiana, per spostarsi, per la guerra.»

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