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Johanson s'immobilizzò con la manica della camicia in mano. «Che bastardi», mormorò. «Quattordici morti. Avrebbero già dovuto chiudere tutto.»

«Anche davanti alla costa australiana, banchi di meduse hanno creato preoccupazioni. Dovrebbe trattarsi delle vespe di mare, animali molto velenosi. Le autorità locali sconsigliano vivamente la balneazione. Negli ultimi cento anni, in Australia sono morte diciassette persone a causa del veleno delle vespe di mare, un numero superiore a quello delle vittime dovute agli attacchi degli squali. Si è inoltre saputo di gravi incidenti mortali anche nelle acque del Canada occidentale. Non si conoscono ancora le cause dell'affondamento di diverse imbarcazioni da turismo. Probabilmente sono entrate in collisione tra loro per un errore di navigazione.»

Johanson si girò. L'annunciatrice del telegiornale stava voltando un foglio e intanto fissava la telecamera con un sorriso vuoto. «E ora le altre notizie del giorno.»

Caravelle portoghesi, pensò Johanson.

Ricordava una donna a Bali che, scossa dai crampi, era accovacciata sulla spiaggia. Lui non era entrato in contatto con quella «cosa». E neppure la donna aveva toccato la caravella. Durante una passeggiata sulla spiaggia, avevano pescato con un bastone una cosa nell'acqua bassa vicino a riva, qualcosa che era parso loro di una bellezza strana e singolare, una sorta di vela eterea galleggiante. Dato che lui era molto prudente, era rimasto a una certa distanza. Avevano girato la cosa da una parte e dall'altra alcune volte, finché, essendo ricoperta di sabbia, aveva perso ogni fascino, e poi lei aveva commesso quello stupido errore…

Le caravelle portoghesi appartenevano ai sifonofori, una famiglia che presentava per gli scienziati ancora molti enigmi. In realtà, le caravelle non erano propriamente meduse, ma una colonia navigante, formata da un gran numero di singoli animali, centinaia o migliaia, con compiti diversificati. La loro vela di gelatina cangiante, blu o rossa, riempita d'aria s'innalzava sull'acqua e permetteva alla colonia di navigare col vento. Quello che c'era sotto la vela non si vedeva.

Però, se ci si finiva in mezzo, si sentiva.

Le caravelle portoghesi trascinavano dietro di sé una cortina di tentacoli che potevano raggiungere i cinquanta metri di lunghezza, ricoperti da centinaia di migliaia di minuscole cellule urticanti, dotate di sensori. La struttura e la funzione di quelle cellule rappresentavano un capolavoro dell'evoluzione, un efficientissimo arsenale. Ogni cellula custodiva una capsula, in cui si trovava una sorta di tubicino arrotolato, che terminava con una punta a forma di arpione e che veniva rovesciato all'esterno come il dito di un guanto. Bastava sfiorarlo per mettere in moto una dinamica impressionante nella sua precisione. Nel momento in cui il sensore registrava il contatto, il tubicino si srotolava con la stessa pressione di settanta pneumatici che scoppiavano. Migliaia di arpioni ricoperti di uncini penetravano nel corpo della vittima, come punture sottocutanee, e iniettavano una miscela di albumina e proteine, che attaccava contemporaneamente i globuli rossi e le cellule nervose. La conseguenza era un'immediata contrazione della muscolatura. Si avvertivano dolori come se del metallo fuso entrasse nel corpo, si entrava in uno stato di shock, la respirazione si bloccava e infine si aveva un collasso cardiaco. Se si aveva la fortuna di trovarsi nei pressi della riva e si veniva soccorsi subito, si poteva sopravvivere. I sommozzatori o i nuotatori che finivano nel groviglio dei tentacoli al largo non avevano speranze.

Quella donna, a Bali, non aveva fatto altro che toccare con un dito del piede il bastone su cui era rimasto un po' di veleno. Una quantità piccola, ma sufficiente perché l'incontro diventasse indimenticabile.

Tuttavia, in confronto alla Chironex fleckeri, alla vespa di mare australiana, le caravelle portoghesi erano praticamente innocue.

Nel corso della storia dell'evoluzione, la natura era arrivata a creare impressionanti miscele di veleni. E, nel caso delle vespe di mare, aveva fatto un vero capolavoro. Il veleno di un unico animale era sufficiente a uccidere duecentocinquanta uomini. L'efficientissimo inibitore nervoso provocava un'immediata perdita di coscienza. La maggior parte delle vittime moriva per collasso cardiaco e annegamento nel giro di alcuni minuti, spesso addirittura di qualche secondo.

Mentre fissava il televisore, Johanson ragionava su quei fatti.

Stavano cercando di prendere per scemi i telespettatori. Era mai successo che su un'unica costa ci fossero quattordici morti contemporaneamente? E che tutte le vittime fossero state uccise dalla stessa specie di meduse? E che cosa voleva dire quell'altra storia, quella della scomparsa delle navi?

Caravelle portoghesi nel Sudamerica, vespe di mare in Australia, invasione di policheti in Norvegia.

Non vuol dire niente, pensò. Le meduse si muovono in banchi. E non c'è estate senza la piaga delle meduse. I vermi erano un'altra faccenda.

Ripose gli ultimi capi d'abbigliamento, spense il televisore e andò in sala per ascoltare un CD o per leggere qualcosa.

Ma Johanson non ascoltò un CD e non prese neppure un libro. Andò avanti e indietro, poi guardò dalla finestra la strada illuminata dai lampioni.

Era così tranquillo, al lago.

Era così tranquillo, lì.

Ma, se era tutto troppo tranquillo, allora qualcosa non andava.

Sciocchezze, pensò Johanson. Che cosa c'entra via Kirkegata con tutto ciò?

Si versò una grappa, la sorseggiò e cercò di non pensare al telegiornale.

Gli venne in mente qualcuno che avrebbe potuto chiamare per avere informazioni.

Olsen rispose dopo il terzo squillo.

«Stavi già dormendo?» chiese Johanson.

«I bambini mi hanno tenuto sveglio», disse Olsen. «È il compleanno di Maria, ha cinque anni. Com'è andata al lago?»

Olsen era un padre di famiglia sempre di ottimo umore. Conduceva una vita borghese, cioè una vita che faceva inorridire Johanson. Non si frequentavano al di fuori del lavoro, se non per la pausa di mezzogiorno. Ma Olsen era una brava persona ed era dotato di senso dell'umorismo. Doveva avere per forza senso dell'umorismo, altrimenti, secondo Johanson, non avrebbe potuto reggere a cinque figli e a una dozzina di parenti sempre intorno.

«Qualche volta dovresti venire con me», gli propose Johanson, senza pensarlo davvero. Con la medesima convinzione avrebbe potuto dirgli: «Dovresti far saltare per aria la tua macchina» oppure: «Dovresti vendere un paio dei tuoi bambini».

«Certo, volentieri», rispose Olsen.

«Hai visto il telegiornale?»

Ci fu una breve pausa. «Vuoi dire per le meduse?»

«Esatto! Pensavo che t'interessasse. Cos'è successo?»

«E cosa vuoi che sia successo? Le invasioni ci sono sempre state. Rane, cavallette, meduse…»

«Mi riferisco in particolare alle caravelle portoghesi e alle vespe di mare.»

«Questo è insolito», disse Olsen.

«Ne sei sicuro?»

«È insolito che le due specie più pericolose di meduse turbino il mondo. E quello che hanno detto al telegiornale suona quantomeno bizzarro.»

«Diciassette morti in cento anni», suggerì Johanson.

«Stupidate.» Olsen sbuffò, sprezzante.

«Meno?»

«Di più! Molte di più, circa novanta, se conti anche il golfo del Bengala e le Filippine, per non parlare dei dati nascosti. Naturalmente l'Australia ha problemi con quella robaccia gelatinosa, specialmente con le vespe di mare, da tempo immemorabile. Le vespe di mare depongono le uova a nord di Rockhampton, alle foci dei fiumi. Quasi tutti gli incidenti accadono nelle acque basse. Nel giro di tre minuti sei morto.»

«La stagione è giusta?» chiese Johanson.

«Per l'Australia, sì. Da ottobre a maggio. In Europa, rompono le scatole quando sulle spiagge si muore dal caldo. L'anno scorso eravamo a Minorca e quasi i bambini ci sono finiti in mezzo, perché c'erano tonnellate di Velella…»

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