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«Karen?» La voce di Johanson, vicinissima.

A poco a poco, i loro occhi si abituarono all'oscurità. Un attimo dopo, si accesero le luci di emergenza rosse e il laboratorio prese l'aspetto di un cupo antinferno. Nella penombra, Karen vide la testa di Johanson che si sollevava dall'acqua. «Vieni qui», gli gridò. «Aiutami.»

Ora il cupo rimbombo non veniva solo dal basso, ma anche dall'alto. Che cos'era successo? Lei ebbe la sensazione che nel laboratorio si fosse alzata la temperatura. Johanson apparve al suo fianco. «Chi è?»

«Non importa. Prendilo.»

«Dobbiamo uscire di qui», ansimò MacMillan. «In fretta.»

«Sì, subito, noi…»

«Presto!»

Karen guardò l'acqua un po' più avanti.

Una debole luce blu.

Un lampo.

Afferrò il piede del morto e si mosse in direzione della porta. Johanson aveva preso il braccio dell'uomo. O era una donna? Avevano preso Sue? Karen sperava che quello che si stavano trascinando appresso non fosse il cadavere della povera Sue. Si spinse in avanti, poi colpì qualcosa che la fece scivolare. Finì con la testa sott'acqua.

Guardò nel buio con gli occhi sbarrati.

Qualcosa serpeggiava verso di lei.

Si muoveva velocemente e sembrava una lunga anguilla luminosa. Anzi un gigantesco verme senza testa. E poi… Non era uno soltanto, erano molti.

Riemerse. «Via di qui.»

Johanson tirava dall'altra parte. Sotto la superficie dell'acqua si stendevano i tentacoli luminosi. Erano almeno una dozzina. MacMillan sollevò il fucile. Karen sentì qualcosa scivolarle sulla caviglia e poi trascinarla.

Nello stesso istante, uscirono dall'acqua diverse cose che strisciarono su di lei. Cercò di strapparsele via. Johanson le balzò vicino e affondò le dita fra i tentacoli intorno al corpo della donna, ma era come se lei fosse tra le spire di un anaconda.

L'essere la stringeva.

L'essere? Stava combattendo contro miliardi di esseri. Miliardi e miliardi di esseri unicellulari.

«Non ci riesco», ansimò Johanson.

La gelatina strisciava sul petto della donna verso la gola. Karen finì di nuovo sotto. L'acqua splendeva. Dietro i tentacoli sgusciava qualcosa di grande. La massa principale dell'organismo.

Karen lottava con tutte le forze per raggiungere la superficie. «MacMillan» gorgogliò.

Il soldato sollevò il fucile.

«Con quello non otterrai nulla», gridò Johanson.

MacMillan sembrava assolutamente calmo. Puntò e prese la mira sulla grande massa che si avvicinava. «E invece con questo otterrò qualcosa.» Fece fuoco ed esclamò: «Le pallottole esplosive ottengono sempre qualcosa!»

La raffica penetrò nell'organismo, l'acqua sprizzò. MacMillan sparò una seconda raffica e la cosa andò in brandelli.

Frammenti di gelatina volarono ovunque. Karen annaspava, in cerca d'aria. Poi di colpo fu libera. Johanson la afferrò. Ripresero a trascinare il cadavere. Lo specchio d'acqua si abbassava e ora procedevano in fretta. Dopo che la nave si era ulteriormente rovesciata in avanti, la maggior parte dell'acqua si era raccolta nella parte del laboratorio verso prua e la porta era praticamente all'asciutto. Era difficile non scivolare sul pavimento in pendenza, ma ormai procedevano con l'acqua non più alta della caviglia.

Portarono il cadavere fuori, sulla rampa. Anche là l'acqua si era ritirata. A Karen sembrò di sentire un grido soffocato.

«MacMillan?»

Sbirciò nel laboratorio. «MacMillan, dov'è?»

L'organismo luminoso stava tornando a riunirsi. I frammenti si fondevano. I tentacoli sembravano scomparsi. L'essere aveva assunto una forma piatta.

«Chiudi la porta», gridò Johanson. «Può ancora uscire. C'è acqua sufficiente.»

«MacMillan!»

Karen si aggrappò al telaio della porta e continuò a guardare nella sala illuminata di rosso, ma il soldato non si vedeva.

MacMillan non ce l'aveva fatta.

Un filo sottile e luminoso si avvicinò. Karen balzò all'indietro e chiuse la paratia. Il tentacolo accelerò, ma stavolta non fu sufficiente. La porta si chiuse.

Esperimenti

Anawak era stato sorpreso dall'esplosione sulla scaletta di boccaporto. Aveva il respiro affannoso e il ginocchio gli faceva male. Imprecò. Vanderbilt gli aveva colpito proprio il ginocchio uscito malconcio dall'incidente con l'idrovolante.

Trovò diversi boccaporti bloccati. Ormai la nave era molto inclinata. L'unica via di fuga era quella lungo la rampa del ponte dell'hangar, quindi lui corse indietro e salì finché non fu abbastanza in alto per raggiungere la rampa. Più saliva, Più aumentava il calore. Cos'era successo lassù? Il rumore non lasciava presagire nulla di buono. Zoppicò lungo il ponte dell'hangar e vide del fumo nero e spesso entrare dalle porte aperte.

Gli sembrò di sentire qualcuno che chiedeva aiuto.

Fece qualche passo nell'hangar.

«C'è qualcuno?» gridò.

La visuale era pessima. Dietro le strisce di fumo nero si riusciva appena a intravedere l'illuminazione gialla del soffitto. In compenso, il grido d'aiuto adesso si sentiva chiaramente.

La voce di Samantha!

«Sam?» Anawak corse in avanti, in mezzo alle nubi di fuliggine. Stava in ascolto, ma il grido non si ripeteva. «Sam? Dove sei?»

Niente.

Attese ancora un momento, poi si girò e corse verso la rampa. Si accorse troppo tardi che essa aveva assunto la pendenza di un trampolino per il salto con gli sci. Gli si piegarono le gambe. Rotolò giù, pregando che almeno una delle siringhe rimasse intatta. C'erano poche speranze che gli rimanessero intatte le ossa. Invece non si ruppe nulla. Quando finalmente arrivò in fondo, finì nell'acqua, che attutì l'impatto. Si riscosse, si riportò all'asciutto procedendo gattoni e vide Karen e Johanson che trascinavano un corpo verso il ponte a pozzo.

Il pavimento era ricoperto da una sottile pellicola d'acqua.

Il bacino artificiale! Stava tracimando nei corridoi. Se l'Independence si fosse piegata ancora un po', tutto quel settore sarebbe stato sommerso.

Dovevano affrettarsi.

«Ho le siringhe», gridò.

Johanson sollevò lo sguardo. «Era ora.»

«Chi è? Chi avete preso?» Anawak si rialzò, barcollando, raggiunse di corsa i due e lanciò un'occhiata al cadavere.

Era Rubin.

Ponte di volo

Al fondo del ponte di coperta, Samantha si accovacciò e guardò l'isola in fiamme.

Vicino a lei c'era un uomo tremante. Sembrava pakistano e indossava una tenuta da cuoco. Soltanto a loro due era venuta l'idea di scappare lì, oppure nessun altro c'era riuscito. L'uomo respirò affannosamente e si rialzò.

«Sa una cosa?» disse lei. «Questo è il risultato del confronto tra specie intelligenti.»

L'altro la fissò come se le stesse crescendo un corno in fronte.

Samantha sospirò.

Aveva raggiunto il punto al di sotto del quale c'era la piattaforma dell'elevatore di destra. Lì si apriva l'accesso al ponte dell'hangar. Aveva gridato un paio di volte, ma nessuno aveva risposto.

Sarebbero sprofondati con la nave in fiamme.

Probabilmente le lance di salvataggio non c'erano neppure. Su una portaerei, ci si salvava prima di tutto coi velivoli. Ammesso che ci fossero delle lance, ci sarebbe comunque stato bisogno di qualcuno che le sganciasse e le calasse in acqua. Ma erano spariti tutti nell'inferno di fuoco.

Un fumo nero giunse verso di loro. Un fumo ripugnante, catramoso. Nella sua ultima ora, Samantha non voleva respirare quella roba.

«Ha una sigaretta?» chiese al cuoco.

Si aspettava una reazione sconcertata e invece lui tirò fuori un pacchetto di Marlboro e un accendino. «Lights», spiegò.

«Oh? Per la salute?» Samantha sorrise e inspirò mentre il cuoco la faceva accendere. «Molto divertente.»

Feromone

«Gli iniettiamo la sostanza sotto la lingua, nel naso, negli occhi e nelle orecchie», disse Karen.

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