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«Ha una sigaretta?» chiese a un soldato.

L'uomo la fissò. «Ma è matta? Si sbrighi a uscire!»

Buchanan

Sul ponte c'erano Buchanan col secondo ufficiale e il timoniere. Buchanan si teneva informato sull'evolversi della situazione e dava istruzioni, mantenendo un tono pacato e riflessivo. A quanto pareva, l'esplosione aveva distrutto una parte della stiva e della sala macchine. La stiva non avrebbe creato problemi, ma nella sala macchine si era evidentemente innescata una reazione a catena nei sistemi del carburante e del lubrificante. Come conseguenza, ci furono altre esplosioni. I sistemi esplodevano uno dopo l'altro. Il fabbisogno di elettricità della nave era garantito da una serie di gruppi elettrogeni. Oltre alle due turbine a gas LM-2500, provvedevano all'energia dell'Independence sei generatori diesel, che stavano appunto saltando in aria l'uno dopo l'altro. Probabilmente, laggiù nelle catacombe, sotto il ponte dei veicoli, erano tutti morti. Nel momento in cui aveva dato l'ordine di chiudere le paratie, aveva sacrificato l'equipaggio della sala macchine, ma non poteva permettersi il lusso di pensarci. Dovevano evacuare la nave. Non osava immaginare per quanto tempo ancora sarebbe rimasta relativamente stabile. L'impatto era avvenuto nella parte centrale, quindi non avrebbero potuto impedire che la stiva si riempisse a prua e che la nave s'inabissasse in avanti.

Nello scafo c'era troppa acqua. Sotto l'enorme pressione, quell'acqua si sarebbe aperta la strada verso la punta della prua e avrebbe sfondato le paratie del livello appena superiore. Se poi fossero saltate anche le paratie del ponte di poppa, la nave avrebbe rischiato di riempirsi completamente.

Buchanan non si faceva illusioni, sapeva che sarebbe successo. L'unico dubbio era quando. La gestione di quella crisi dipendeva esclusivamente da lui e dalle sue capacità di valutare gli eventi. Valutò che subito dopo sarebbe stata la volta del ponte dei veicoli sotto il laboratorio e di una parte degli alloggiamenti limitrofi. L'unica nota consolante era che a bordo non c'erano marine. In caso di guerra, a bordo ci sarebbero stati circa tremila uomini. Invéce ora erano poco meno di centottanta e si trovavano tutti nei livelli superiori.

Alcuni dei monitor che trasmettevano sul ponte il quadro complessivo del CIC erano saltati. Proprio sopra la testa di Buchanan era appeso il telefono rosso piombato che, nelle situazioni eccezionali, permetteva il collegamento diretto col Pentagono. Lui fece scorrere lo sguardo sugli apparecchi per le comunicazioni, pratici e disposti razionalmente, sugli strumenti di navigazione e sui tavoli delle carte. Niente poteva aiutarli.

Robaccia inutile.

Sul ponte, il personale addetto allo sbarco si muoveva freneticamente. La gente veniva condotta di corsa dall'isola verso il ponte di volo e fatta salire sugli elicotteri già pronti, coi rotori accesi, Buchanan parlò brevemente con la centrale di volo e poi tornò a guardare fuori, attraverso la grande vetrata verde del ponte di comando. Un elicottero si era già sollevato e si allontanava velocemente dalla nave. Non erano abbastanza veloci. Se la prua si fosse piegata ancora, il ponte di volo si sarebbe trasformato in uno scivolo. I velivoli erano ben assicurati, ma, a un certo punto, la situazione sarebbe diventata critica.

Livello 3

Anawak non incontrò molte persone. Temeva di finire nelle braccia di Judith Li e di Peak, ma evidentemente i due erano in marcia nella direzione opposta. Senza fiato e con le costole doloranti, si affrettò lungo il corridoio diretto alla stazione medica.

L'ospedale era deserto. Non c'era traccia di Angeli e del suo personale. Attraversò diverse sale piene di letti prima di arrivare nella stanza delle attrezzature mediche. Sembrava che ci fosse stato un terremoto. Gli armadietti erano aperti, il pavimento era ricoperto di schegge che scricchiolavano sotto i piedi. Aprì tutti i cassetti e frugò nelle scansie finite a terra e ricoperte di macerie senza riuscire a trovare neppure una siringa.

Dov'erano?

Dov'erano di solito quando si andava dal medico? Sempre in qualche cassetto. Lo sapeva bene. In piccoli armadietti laccati di bianco con molti cassetti.

Da sotto giunse un rumore. Udì dei lamenti. L'acciaio si stava piegando.

Si precipitò nella sala adiacente. Anche lì era un disastro, ma uno degli armadietti laccati sembrava fissato molto bene. Lo raggiunse e frugò all'interno, gettandosi alle spalle tutto ciò che gli capitava tra le mani. Finalmente trovò ciò che stava cercando. Afferrò una dozzina di siringhe in confezione sterile e se le infilò nella giacca. Adesso non restava altro che tornare indietro.

Che idea folle!

O Karen aveva ragione, e allora si trattava di un piano geniale, oppure si erano creati un'immagine completamente falsa della realtà. La proposta, da un lato plausibile, gli appariva dall'altro irrealizzabile e ingenua, soprattutto sullo sfondo del messaggio escogitato da Samantha e mandato negli abissi. Però… Samantha? Ma dov'era?

Samantha che gli era apparsa in sogno molto tempo prima e gli aveva indicato la via per il Nunavut…

Nelle sue orecchie risuonò un fortissimo gong, come se fosse andata in frantumi una campana. Il pavimento s'inclinò ulteriormente. Dal fondo della nave arrivava un ruggito cupo.

L'acqua!

Anawak si chiese se avrebbe avuto il tempo di fuggire. Poi non si chiese più niente e si mise a correre.

Laboratorio

Karen non sapeva cosa l'aspettava. Si sentiva a disagio all'idea di riaprire la porta del laboratorio. Ma, se voleva far partire il piano, il laboratorio era l'unica possibilità.

Il pavimento tremava. Sotto i suoi piedi, lei sentiva l'acqua scrosciare e gorgogliare. Johanson si appoggiò vicino a lei, ansimando pesantemente. «Apri», disse.

Karen vide il simbolo rosso dell'emergenza sopra la tastiera. Mentre correva fuori, Judith Li era riuscita a inserire la chiusura d'emergenza che sigillava il laboratorio. Digitò una combinazione numerica e la porta si aprì. L'acqua si rovesciò contro di lei e le sommerse le gambe. Usciva dal laboratorio illuminato a giorno, ma, anziché scorrere lungo la rampa, si raccoglieva appena fuori della porta e cresceva. Karen comprese subito il perché: l'Independence era così inclinata che l'acqua non poteva scorrere verso il ponte a pozzo. Probabilmente, a causa dell'inclinazione, quella parte della rampa aveva assunto una posizione orizzontale.

Indietreggiò. «Dobbiamo stare attenti», disse. «Quella sostanza potrebbe essere uscita.»

Johanson gettò uno sguardo all'interno. Nelle immediate vicinanze della cisterna distrutta vide galleggiare due corpi senza vita. Con passi cauti, camminò tra i vortici dell'acqua, che fluiva, impetuosa. Karen lo seguì. Il loro primo sguardo fu ai container del laboratorio di massima sicurezza: sembravano intatti. Fu un sollievo. Una contaminazione di Pfiesteria era l'ultima cosa di cui avevano bisogno in quel momento.

Verso poppa, il pavimento emergeva lentamente dall'acqua. In compenso, dalla parte opposta, l'acqua era molto più alta.

«Sono tutti morti», mormorò Karen.

Johanson socchiuse le palpebre. «Là!»

Poco discosto dai soldati galleggiava un terzo corpo.

Era Rubin.

Karen ricacciò indietro il disgusto e il terrore. «Ce ne serve uno», disse. «Non importa quale.»

«Però dobbiamo spingerci più all'interno.»

«Sì. Non si può fare diversamente.» Avanzò.

«Attenta!» gridò Johanson

Lei stava per girarsi quando qualcosa la colpì da dietro, facendola scivolare. Con un grido, finì in acqua; poi riemerse, sputando, e si girò sulla schiena.

Uno dei soldati era là, e li teneva sotto tiro con un fucile nero e massiccio.

«Oh, no», disse disperato. «Oooh, no.»

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