Anawak fissava dritto davanti a sé. Sentiva la rabbia crescere. «Allora non hai bisogno di me», disse indispettito.
Greywolf non rispose.
«Allora vuoi restare qui a fare la muffa?»
«Lo sai che preferisco la compagnia degli animali.»
Anche se uno di loro ha ucciso Alicia? voleva chiedergli Anawak, ma all'ultimo momento si fermò. Che doveva fare? «Anch'io ho perso Alicia», disse infine.
Greywolf si bloccò per qualche istante. Poi riprese ad armeggiare col cacciavite nella telecamera. «Non si tratta di questo.»
«E di che cosa, allora?»
«Che vuoi, Leon?»
«Che voglio?» Anawak rifletté. Non era gentile. Di fronte a tutto quello che stava soffrendo Greywolf, non era per nulla gentile. «Non lo so, Jack. Ti dico apertamente che me lo chiedo anche io.»
Si girò per andarsene.
Quando ebbe quasi raggiunto il tunnel, sentì Greywolf dire a bassa voce: «Aspetta, Leon».
Ricordo
Johanson si assopì.
Era stanco morto. La notte precedente gli era penetrata fin nelle ossa. Era seduto davanti alla console, mentre Sue, nel laboratorio sterile, produceva i feromoni concentrati degli yrr. Avevano deciso di metterne una parte nel simulatore. La massa gelatinosa era sparita e l'acqua era intorbidita dal gran numero di unicellulari. Era probabile che si fosse momentaneamente sciolta e avesse interrotto la luminosità. Gli scienziati speravano che, introducendo l'estratto di feromone, avvenisse la fusione, così loro avrebbero potuto condurre altri test.
Forse bisognerebbe mandare nella cisterna il messaggio di Samantha, per vedere se l'insieme risponde, pensò Johanson. Aveva un vago mal di testa e sapeva il perché. Non dipendeva né dal superlavoro né dalla stanchezza. A far male erano i pensieri, avvinghiati l'uno all'altro.
I ricordi bloccati.
Dall'ultima riunione, la situazione era peggiorata. Una frase di Judith Li aveva rimesso in movimento la sua slitta per le diapositive. Erano state poche parole, ma avevano riempito tutta la sua mente, impedendogli di concentrarsi sul lavoro. Quel continuo riflettere era snervante. La testa di Johanson si rovesciò lentamente all'indietro e lui cadde in un sonno leggero. Galleggiava sulla superficie della coscienza, prigioniero del loop infinito generato dalle parole di Judith.
Non dobbiamo affrettare i tempi, non dobbiamo affrettare i tempi, non…
Da qualche parte arrivò alle sue orecchie un rumore. Sue aveva già finito con la sintesi dei feromoni? Per un attimo, riemerse dal sonno, socchiuse gli occhi nell'illuminazione del laboratorio e poi li richiuse.
Non dobbiamo affrettare i tempi.
Luce fioca.
Il ponte dell'hangar.
Un rumore metallico, strascicato, leggero. Johanson si spaventa. All'inizio non sa dove si trova. Poi sente la parete metallica contro la schiena. Sul mare, il cielo si è schiarito. Si tira su a fatica e guarda lungo la parete.
Si è aperta.
Una porta si è aperta e risplende, luminosa. Dall'interno esce una luce bianca. Johanson scivola giù dalla cassa. Da come gli dolgono le ossa, deve aver trascorso lì molte ore. Un vecchio. Si avvia lentamente verso il quadrato luminoso da cui inizia un corridoio con le pareti nude. Ora lo riconosce. Lampade al neon si allineano sul soffitto. Dopo qualche metro, la parete fa una curva.
Johanson spia all'interno e ascolta.
Voci e rumori. Fa un passo indietro. Cosa c'è dietro l'angolo? Deve entrare?
Johanson esita.
Non dobbiamo affrettare i tempi, non dobbiamo affrettare i tempi.
Esita.
Improvvisamente si rompe una barriera.
Entra. Sui lati ci sono solo pareti spoglie. Va a destra. Ancora un gomito, stavolta nell'altra direzione. È un corridoio molto largo, ci potrebbe passare un'auto. Ancora rumori, voci, stavolta più vicini. La fonte deve essere dopo il secondo gomito. I suoi passi lo portano lentamente alla svolta, a sinistra, e là c'è…
Il laboratorio.
No, non il laboratorio. Un laboratorio. E anche quel laboratorio ha un simulatore, un apparecchio più piccolo, delle dimensioni di una cassa. All'interno galleggia qualcosa di luminoso, di blu, coi tentacoli distesi…
Johanson guarda la scena, incredulo.
Quella sala è una copia perfetta, ma più piccola, del settore sottostante. Sono allineati diversi tavoli. Apparecchiature. Contenitori con azoto liquido. Una console con vari monitor. Un microscopio elettronico. Sullo sfondo, su una porta di vetro blindato, un simbolo di pericolo biologico. Ancora oltre, una porta aperta conduce in un corridoio più stretto.
E là ci sono delle persone.
Le persone sono davanti al piccolo simulatore. Parlano tra loro senza accorgersi dell'intruso. Due uomini gli voltano la schiena e una donna, messa di tre quarti, annota qualcosa su un blocco. Lo sguardo della donna si sposta dagli uomini al simulatore, poi nella sala, cade su Johanson…
La sua bocca si spalanca e gli uomini si girano di colpo verso di lui. Uno lo conosce. È della squadra di Vanderbilt, nessuno sa esattamente cosa faccia. Ma cosa fanno di solito gli agenti della CIA?
Il secondo uomo lo conosce bene.
È Rubin.
Johanson è troppo sbigottito per fare altro che starsene lì e guardare. Vede il terrore negli occhi di Rubin, vi legge la domanda di come sia possibile salvare la situazione. In effetti è solo quello sguardo che sblocca Johanson, il quale improvvisamente capisce. Lì si sta giocando un gioco strano, in cui lui è solo usato, lui come tutti gli altri, Sue Oliviera, Leon Anawak, Karen Weaver, Samantha Crowe…
Chi altro ricopre un ruolo in questo gioco?
E a che scopo?
Rubin gli si avvicina lentamente. Sui suoi lineamenti è comparso un sorriso tirato. «Sigur, mio Dio! Soffre d'insonnia?»
Lo sguardo di Johanson si sposta nella sala, sfiora gli altri. Basta guardare un secondo nei loro occhi per capire che lui non dovrebbe essere lì.
«Che fate qui, Mick?»
«Oh, niente, è solo…»
«Che vuol dire? Cosa succede qui?»
Rubin gli si piazza davanti. «Le posso spiegare, Sigur. Sa, in effetti non avevamo intenzione di utilizzare questo secondo laboratorio, è stato allestito solo per le emergenze, se, per qualsiasi motivo, quello più grande non dovesse più funzionare. Ispezioniamo costantemente i sistemi in modo che sia pronto a entrare in azione nel caso…»
Johanson indica l'essere nel simulatore. «Avete nella cisterna una… di quelle cose!»
«Ah, quella?» Rubin si gira e poi torna a guardarlo. «Ehm… sì, dovevamo provare, per la messa in sicurezza. Non vi abbiamo detto nulla, non c'era nessuna necessità, perché…»
Tutte bugie.
Certo, Johanson non è perfettamente sobrio, ma ha notato che Rubin parla come se ne andasse della sua vita.
Si gira e imbocca il corridoio verso l'esterno.
«Sigur! Dottor Johanson!»
Passi alle sue spalle. Rubin al suo fianco. Dita che afferrano nervosamente la sua manica.
«Aspetti.»
«Cosa fate qui?»
«Non è come pensa, io…»
«Come fa a sapere cosa penso, Mick?»
«È una misura di sicurezza.»
«Come?»
«Il laboratorio è una misura di sicurezza!»
Johanson si libera dalla stretta. «Credo che dovrò parlarne col generale Li.»
«No, questo…»
«O meglio ancora con Sue. Sciocchezze, credo che sia meglio che ne parli con tutti, che ne dice, Mick? Ci state prendendo in giro?»
«Certo che no.»
«E allora si decida a spiegarmi cosa vuol dire tutto questo.»
Negli occhi di Rubin si accende il panico. «Sigur, non sarebbe una buona idea. Ora non deve affrettare i tempi. Ha capito? Non dobbiamo affrettare i tempii»
Johanson lo guarda. Poi sbuffa involontariamente e se ne va. Sente gli altri che lo seguono, si sente sulla schiena la paura di Rubin.
Non dobbiamo affrettare i tempi.
Una luce bianca.