«Guardate!»
La razza si trasformò in qualcosa di serpeggiante e la massa fuggì in tutte le direzioni. Sembravano migliaia di pesci minuscoli, con movimenti sincronizzati. Poi si riunirono. L'immagine cambiava sempre più velocemente il proprio aspetto, come se scorresse un programma. Nel giro di pochi secondi si trasformava in forme note o sconosciute. Tutti i frammenti di gelatina erano coinvolti dal fenomeno. Si gettavano l'uno sopra l'altro. Saettavano i soliti lampi e, per un terribile e sgradevole momento, Johanson pensò di riconoscere nel rapidissimo cambio di forme una figura umana.
Materia e brandelli di nubi… Tutto vorticava.
«Si fonde!» gemette Rubin. Guardava con occhi luccicanti il monitor davanti a lui, su cui scorrevano i dati. «L'acqua è satura di una nuova sostanza, un composto chimico!»
Johanson virò col robot attraverso quell'universo mutante, continuando a raccogliere campioni. Era come un rally. Quanti sarebbe riuscito a raccoglierne? Quando sarebbe stato consigliabile fare marcia indietro? Sembrava che la massa si fosse completamente ripresa. Si era formato un centro. Tutto collassava su se stesso. Quello che era già successo in piccolo, ora si ripeteva in grande scala. Singole cellule che si riunivano a formare un essere unico. Un organismo senza occhi visibili, senza orecchie e organi di senso, senza cuore, cervello e viscere, un grumo omogeneo che però era in grado di attuare processi complessi.
Si stava formando qualcosa di gigantesco. Una buona metà di quanto era penetrato nel ponte a pozzo era stata rimandata in mare dalle pompe, ma quello che era rimasto aveva pur sempre le dimensioni di un furgone. Attraverso la finestra ovale del simulatore videro la gelatina raggrumarsi e diventare più solida. Johanson portò il robot al bordo della fusione, dove c'erano nuvole blu che tendevano verso il centro. Tre delle provette non avevano ancora raccolto campioni. Le fece uscire e tentò d'infilarsi nuovamente nella massa.
L'essere si ritirò subito, producendo decine di tentacoli che afferrarono il robot. Johanson perse il controllo della macchina. Il robot, immobile, era preda dei tentacoli dell'essere, che scendeva lentamente verso il fondo della cisterna e intanto stava generando una sorta di piede appiccicoso. Improvvisamente ricordò un fungo enorme con una corona di braccia flessibili.
«Maledizione», imprecò Sue. «È stato troppo lento.»
Le dita di Rubin correvano sulla tastiera del computer. «Ho una gran quantità di dati», spiegò. «Un'ebbrezza molecolare. Quella sostanza usa davvero un feromone! Allora avevo ragione.»
«Anawak e Karen avevano ragione», lo corresse Sue.
«Ovvio, volevo dire…»
«Avevamo tutti ragione.»
«Era quello che volevo dire.»
«È qualcosa che conosciamo, Mick?» chiese Johanson senza distogliere lo sguardo dal monitor.
Rubin scosse la testa. «Non ne ho idea. Gli ingredienti sono noti. Ma sulla ricetta non posso dire niente. Abbiamo bisogno dei campioni.»
La parte superiore dell'essere formò una spessa matassa, che si ramificò in fili sottili. Poi la matassa si piegò verso il robot. I fili tastavano la macchina e i contenitori dei campioni.
Tutto lasciava pensare a un esame sistematico e ponderato.
«Vedo bene?» Sue si piegò in avanti. «Vuole aprire le provette?»
«Non sono così facili da aprire.» Johanson cercò di riprendere il controllo del robot. I tentacoli che lo serravano reagirono, stringendolo ancora di più. «Evidentemente si è innamorato», sospirò. «Va bene. Aspettiamo.»
I fili proseguirono il loro esame.
«Può vedere il robot?» chiese Rubin.
«Con che cosa?» Sue scosse la testa. «Può cambiare la forma, ma non credo possa formare degli occhi.»
«Forse non gli servono neanche», commentò Johanson. «Lui comprende il suo mondo.»
Infine la massa lasciò libero il robot. Tutti i fili e i tentacoli rientrarono nella grande struttura, sparendo. L'organismo si appiattì fino a coprire completamente il fondo della cisterna con un strato sottile.
«Dunque sa fare anche il pavimento galleggiante», scherzò Sue.
«Arrivederci», disse Johanson e riportò il robot nel garage.
Combat Information Center
«Che ci state dicendo?» Samantha Crowe appoggiò il mento alle mani. Tra l'indice e il medio della mano destra bruciava l'immancabile sigaretta, ma stavolta si consumava senza essere stata quasi fumata. Samantha non aveva tempo di aspirare. Insieme con Murray Shankar, stava cercando di capire il messaggio mandato dagli yrr.
Un messaggio accompagnato da un attacco.
Dopo che il computer aveva decifrato il primo messaggio, comprendere il secondo era stato più facile. Come nel primo, gli yrr avevano risposto con un codice binario. Non era ancora chiaro se i dati formassero un'immagine. Per ora, sembrava avere senso soltanto una informazione. Un dato che, sullo sfondo dell'orizzonte di attese generate da un'intelligenza aliena, appariva quantomeno ridicola.
Era la rappresentazione di una molecola, una formula chimica.
H2O.
«Molto originale», commentò Shankar, acido. «Che vivono nell'acqua lo sapevamo da un pezzo.»
Tuttavia gli yrr avevano accoppiato altri dati alla formula dell'acqua. Il computer lavorava a pieno ritmo e, nella testa di Samantha, cominciava a farsi strada il modo in cui interpretare quei dati. «Forse si tratta di una carta geografica», disse.
«Cosa intendi? Una carta del fondale marino?»
«No. Questo vorrebbe dire che vivono sul fondale. Se il nostro amico nel simulatore fa parte di quell'intelligenza sconosciuta, il suo ambiente vitale può essere solo il mare aperto. Gli abissi marini sono il suo universo, quello attraverso il quale si muove. Omogeneo e uguale in ogni direzione.»
Shankar rifletté. «E sia», ammise. «Allora mettiamolo sotto il microscopio ed esaminiamo la sua composizione. Sostanze minerali, acidi, basi e così via.»
«Che non sono uguali ovunque», confermò Samantha. «La prima volta hanno mandato un'immagine coi risultati delle due verifiche matematiche. Questo è decisamente più complicato. Ma se abbiamo ragione, anche queste varianti saranno limitate. Non posso giurarlo, però credo che ci abbiano mandato un'altra immagine.»
Joint Intelligence Center
Karen trovò Anawak seduto al computer. Sullo schermo vorticavano unicellulari virtuali, ma lei ebbe l'impressione che Anawak non li stesse guardando.
«Mi dispiace per quello che è successo alla tua amica», disse sottovoce.
Anawak guardò il soffitto. «Sai qual è la cosa strana?» La sua voce sembrava impastata. «Che la sua morte mi colpisce da vicino. La morte non mi ha mai particolarmente impressionato. L'ultima volta che ho pianto è stato quand'è morta mia madre. Mio padre è morto e l'orrore di non riuscire a dispiacermene mi fa star male. Tu conosci fin troppo bene la storia… Ma Alicia? Mio Dio. Non ho mai riflettuto seriamente su di lei. Era una studentessa che per lungo tempo mi ha dato sui nervi. Poi ho imparato ad apprezzarla.»
Karen esitò, poi timidamente gli tocco la spalla. Le dita di Anawak le sfiorarono la mano.
«Il tuo programma funziona benissimo», disse lui.
«Questo vuol dire che i biologi in laboratorio dovranno cambiare tutto e verificarlo.»
«Sì. Il problema sta proprio qui. Rimane un'ipotesi.»
Avevano provvisto gli unicellulari virtuali di un DNA capace di apprendere e in grado di mutarsi continuamente. Secondo questo modello, ogni singola cellula era una sorta di piccolo computer autonomo, che riscriveva costantemente il proprio programma. Ogni nuova informazione cambiava la struttura del genoma. Se una determinata parte delle cellule faceva un'esperienza, l'esperienza cambiava la struttura genetica. Poi, quando le cellule si fondevano con le altre, trasmettevano le nuove informazioni e il DNA delle altre si modificava. In tal modo, l'insieme apprendeva di continuo e la fusione provocava anche una distribuzione delle informazioni. Ogni nuova conoscenza della singola cellula arricchiva l'esperienza collettiva.