Oppure stava immaginando tutto?
Forse sei diventato un vecchio pazzo senza neppure accorgertene, pensò. Sarebbe stato davvero penoso. Poteva forse andare da Judith Li e costringerla a parlare soltanto per poi scoprire che era lui a non avere tutte le rotelle a posto? Una prospettiva tutt'altro che esaltante.
Mentre se ne stava lì a rimuginare, il destino gli tese una mano. Gli mandò Karen Weaver. Johanson fu contento di vedere la figurina muscolosa che veniva verso di lui sul ponte. Nell'ultimo periodo non avevano potuto parlare molto. Si erano intesi fin dall'inizio, ma lui in breve tempo aveva preso atto che lei non rappresentava un sostituto di Tina. Quell'intesa non aveva portato a un legame profondo, né allo Château né sull'Independence. Forse Johanson, attraverso di lei, aveva sperato di porre almeno in parte rimedio a quello che era capitato a Tina Lund, ma ormai le cose erano cambiate. Johanson non era più così sicuro di essere responsabile di quanto era successo e non era neppure sicuro che tra lui e Karen potesse instaurarsi quella confidenza che lui aveva condiviso con Tina. Da un po' di tempo, aveva l'impressione che stesse nascendo qualcosa tra lei e Anawak, e in effetti i due sembravano fatti l'uno per l'altra.
Quindi non ci sarebbe stata confidenza.
Ma ci sarebbe stata fiducia. Una cosa completamente diversa. Dare fiducia a Karen poteva portare solo vantaggi. Era troppo obiettiva per cercare sottintesi romantici in un avvenimento misterioso. Lo avrebbe ascoltato, facendogli poi capire chiaramente se gli credeva o se lo considerava un pazzo.
Le raccontò in breve quello che ricordava, la confusione che aveva in testa, su quali punti lui stesso era diffidente e che cosa aveva provato durante il breve interrogatorio di Judith Li.
Dopo averci riflettuto per un po', Karen disse: «Sei tornato a controllare?»
Johanson scosse la testa. «Non ne ho ancora avuto l'occasione.»
«Volendo, ne avresti avute un sacco. Non vuoi andare a controllare perché temi di non trovare niente.»
«Probabilmente hai ragione.»
Lei annuì. «Bene. Allora andiamo insieme.»
Aveva colto nel segno. A ogni passo, Johanson sentiva crescere la paura e l'insicurezza. Che cosa sarebbe successo se non avessero trovato nulla? Ormai era praticamente certo che laggiù non avrebbero trovato nessuna porta e quindi avrebbe dovuto abituarsi all'idea di essere andato fuori di testa. Aveva cinquantasei anni, era un bell'uomo, cui si riconoscevano intelligenza, una certa carica erotica, un discreto fascino e un elevato numero di successi con le donne.
Evidentemente era diventato un vecchio decrepito.
Accadde quello che temeva. Percorsero diverse volte la parete senza trovare nulla che potesse far pensare a un passaggio.
Karen lo guardò.
«Va bene», mormorò Johanson.
«Non c'è problema», disse Karen. Ma, subito dopo, con sua grande sorpresa, aggiunse: «La parete è rivettata, lungo le saldature corrono ovunque delle tubature. Ci sono migliaia di possibilità per costruire una porta invisibile. Cerca di ricordare esattamente dove l'hai vista.»
«Mi credi?»
«Ti conosco a sufficienza, Sigur. Non sei un pazzo. Non bevi come una spugna e non prendi droghe. Sei un buongustaio, e i buongustai hanno occhio per dettagli invisibili agli altri. Io sono più un tipo da fish'n' chips. Probabilmente non vedrei quella porta nemmeno se si spalancasse davanti al mio naso, perché non concepirei neppure l'idea che una parete del genere possa ruotare su se stessa. Non so che cos'hai visto, però… ti credo.»
Johanson sorrise. E, dopo aver stampato un bacio sulla guancia di Karen, scese la rampa verso il laboratorio, decisamente sollevato.
Laboratorio
Rubin era sempre molto pallido e, quando parlava, sembrava gracchiare come un pappagallo. In effetti, per poco non ci aveva rimesso la pelle. Greywolf era stato a un passo dallo spedirlo nell'aldilà. Ma il biologo si era mostrato comprensivo. Sorrideva in modo così tirato che a Johanson faceva venire in mente l'infermiera Ratched di Qualcuno volò sul nido del cuculo, dopo che Jack Nicholson le aveva stretto le mani alla gola. Quando guardava a destra o a sinistra girava anche la parte superiore del corpo, descriveva a tutti le sue pietose condizioni fisiche e sosteneva che Greywolf non era malvagio. «Stavano insieme, vero?» gorgogliava. «Per lui deve essere stato terribile. E sono stato io a voler aprire la paratia. Certo, non doveva aggredirmi, ma lo capisco.»
Sue faceva scorrere lo sguardo da lui a Johanson e teneva la bocca chiusa, cosa piuttosto insolita per lei.
Nella cisterna galleggiavano grandi frammenti della massa gelatinosa. Avevano ricominciato a splendere. Al momento, quello che interessava maggiormente i tre biologi non era tanto la gelatina, quanto la nuvola. Oltre alle due tonnellate e mezzo di sostanza che gli uomini di Judith Li avevano portato nel simulatore, c'erano anche grandi quantità di materiale sciolto. Tra i microrganismi e i grumi di sostanza in sospensione si muoveva un robot dotato di sensori sensibilissimi, che analizzava la composizione chimica dell'acqua e mandava i dati sul monitor della console di comando. La parte esterna del robot era corredata di tubi che, premendo un pulsante, si potevano far uscire, aprire, chiudere e far rientrare. Era grande come lo Spherobot, estremamente robusto e maneggevole.
Johanson era seduto alla console con un piglio da comandante di navicella spaziale ed era in attesa, con le mani sui joystick. L'illuminazione della cisterna e del laboratorio era stata ridotta al minimo per poter osservare meglio gli avvenimenti. Gli scienziati erano dunque stati testimoni di come la massa si fosse progressivamente ripresa. I frammenti di gelatina splendevano intensamente e diffondevano all'interno del simulatore una pulsante luce blu.
«Credo che ci siamo», mormorò Sue. «Si riforma.»
Johanson guidò il robot sotto uno dei frammenti, aprì una provetta per i campioni e la infilò nella massa. Il bordo della provetta era affilato come un rasoio. Staccò un po' di gelatina, si richiuse da sola e rientrò. Il frammento non reagì a quella puntura. Si stava deformando, avvolto in una nuvola blu. Johanson attese qualche istante, poi ripeté la procedura in altri punti.
Nel grumo di gelatina scintillavano luci minuscole. Il grumo aveva le dimensioni di una focena adulta o di un delfino. Più Johanson procedeva nel riempire le provette, più si rendeva conto che quel paragone era esatto. Le dimensioni di un delfino. No, di più. La forma di un delfino.
Nello stesso istante, Sue disse: «Incredibile. Sembra un delfino».
Johanson quasi si dimenticò di guidare il robot. Osservava affascinato gli altri frammenti che cambiavano forma. Alcuni ricordavano gli squali, altri sembravano calamari.
«Com'è possibile?» rantolò Rubin.
«Programmazione», spiegò Johanson. «Non può che essere così.»
«Ma come fanno a sapere come si fa?»
«Lo sanno e basta. Hanno imparato.»
«In che modo?»
«Se sono in grado d'imitare forme e successioni di movimenti, devono essere maestri del travestimento. Che ne pensa?» chiese Sue.
«Non lo so.» Johanson era scettico. «Non so se ciò che stiamo vedendo abbia come scopo quello di mimetizzarsi. Ho piuttosto la sensazione che stiano… ricordando.»
«Ricordando?»
«Lo sa cosa succede quando pensiamo, no? Determinati neuroni si accendono all'improvviso, si raggruppano e creano collegamenti. Creano una decorazione. Il nostro cervello non può cambiare forma, ma in un certo senso le decorazioni neurali creano una forma. Se s'impara a leggerle, si possono riconoscere i pensieri.»
«Crede che stiano pensando a un delfino?»
«Quello non somiglia a un delfino», disse Rubin.
«E invece sì, è…» Johanson sobbalzò. Rubin aveva ragione. La forma era cambiata ancora. Adesso somigliava a una specie di razza, che risaliva nella cisterna muovendo lentamente le ah. Dalla punta delle ali uscivano fili sottili che studiavano l'ambiente.