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«Avanti a sinistra», disse Bohrmann. «O a destra. È lo stesso, l'importante è continuare.»

«Procediamo con un lento movimento a zig-zag», propose van Maarten. «Da un limite all'altro della zona illuminata. Non appena avremo ripulito la zona visibile, muoveremo l'isola e procederemo con gli altri quaranta metri.»

«Molto bene! Faccia così.»

L'aspiratore si muoveva e intanto risucchiava i vermi. In quei punti, l'acqua era così torbida che non si riusciva a vedere il fondale.

«Riusciremo a vedere il risultato dell'operazione soltanto quando i sedimenti nell'acqua si saranno depositati», disse van Maarten. Sembrava notevolmente sollevato. Con un profondo sospirò, sembrò liberarsi della tensione accumulata nel corso di quelle settimane e si appoggiò allo schienale, quasi rilassato. «Ma credo che saremo tutti decisamente soddisfatti.»

Independence, mar di Groenlandia

Dinn-donn!

Le campane di Trondheim, la domenica mattina. Il campanile in via Kirkegata. Illuminato dal sole, si staglia contro il cielo, una piccola torre sicura di sé, che getta la propria ombra sulle case color ocra dal tetto a capanna e sulla scala d'ingresso, dipinta di bianco. Una piccola torre che infastidisce l'udito.

Dinn-donn, mondo intero. Alzarsi.

Cuscini sulla testa. Chi ha dato facoltà a una chiesa di decidere quando bisogna alzarsi? Lui no di certo. Maledetta chiesa! Bevuto troppo, ieri coi colleghi e con gli srudenti? Non può essere che così.

Dinn-donn!

«Sono le otto.»

L'altoparlante.

Non c'è più via Kirkegata, non c'è più la piccola torre così sicura di sé, non c'è più la casa color ocra. Nel suo cranio non martellavano le campane di Trondheim, ma un terribile mal di testa.

Cos'è successo?

Johanson aprì gli occhi e si trovò tra le lenzuola disfatte di un letto sconosciuto. Intorno c'erano altri letti, tutti vuoti. La sala era grande, piena di apparecchiature, senza finestre e decisamente antisettica. Una camera d'ospedale.

Che diavolo ci faceva in una camera d'ospedale?

Sollevò la testa, che ricadde immediatamente sul cuscino. Gli occhi si richiusero da soli. Qualsiasi cosa era meglio del rimbombo nella testa. E lui stava male.

«Sono le nove.»

Johanson si sollevò.

Era ancora in quella stanza, ma si sentiva assai meglio. La nausea era sparita, il dolore penetrante era diventato un'intensa, ma sopportabile, pressione.

Però continuava a non sapere come fosse finito lì.

Si guardò intorno. Camicia, pantaloni e calze erano quelli della notte precedente. La giacca a vento e il pullover erano sul letto di fianco al suo; davanti c'erano le scarpe, sistemate accuratamente l'una accanto all'altra.

Spostò le gambe oltre il bordo del letto.

Immediatamente si aprì una porta ed entrò il dottor Angeli, il direttore dell'assistenza medica. Angeli era un italiano; era piccolo, aveva la chierica e rughe profonde agli angoli della bocca. Su quella nave svolgeva il lavoro più noioso, perché nessuno si ammalava. Però evidentemente adesso non era più così. «Come sta?» Angeli chinò la testa. «Tutto a posto?»

«Non lo so.» Johanson si toccò la nuca e trasalì violentemente.

«Le farà male ancora per un po'», disse il medico. «Non si preoccupi. Poteva andare peggio.»

«Ma cos'è successo?»

«Non ricorda?»

Johanson ci pensò, ma l'unico risultato che ottenne fu il ritorno del dolore. «Credo che un paio di aspirine non mi farebbero male», gemette.

«Non sa cos'è successo?»

«Non ne ho idea.»

Angeli si avvicinò, scrutandolo. «Già. Stanotte l'hanno trovata sul ponte dell'hangar. Deve essere scivolato. È una benedizione che qui sia tutto sorvegliato con le telecamere, altrimenti sarebbe ancora là disteso. Probabilmente ha sbattuto la nuca contro il pavimento.»

«Il ponte dell'hangar?»

«Sì, non ricorda?»

Certo, era stato sul ponte dell'hangar. Con Sue. E poi un'altra volta, da solo. Ricordava di essere tornato là, ma non il perché. E tantomeno che cosa fosse successo.

«Poteva finire male», riprese Angeli. «Lei… ehm… Per caso, ha bevuto qualcosa?»

«Bevuto?»

«Per via della bottiglia vuota. C'era una bottiglia vuota. Miss Oliviera sostiene che avete bevuto qualcosa insieme.» Allargò le dita. «Non mi fraintenda, non c'è niente di male. Ma le portaerei sono luoghi pericolosi. Umidi e bui. Si può scivolare o cadere in mare. È meglio non andare da soli sul ponte, soprattutto se… ehm…»

«… se si è bevuto qualcosa», concluse Johanson. Si alzò, ma fu preso dalle vertigini. Angeli lo sostenne per i gomiti.

«Grazie, sto bene.» Johanson lo scostò. «Dove sono?»

«Nell'ambulatorio. Riesce a stare in piedi?»

«Se mi desse le aspirine…»

Angeli andò a una cassettiera laccata di bianco e prese una scatola di analgesici. «Ecco. È solo un bel bernoccolo. Presto starà meglio.»

«Okay, grazie.»

«Si sente davvero bene?»

«Sì.»

«E non ricorda niente?»

«No, accidenti.»

«Va bene.» Angeli sorrise. «Non si butti subito a capofitto nel lavoro. E, se dovesse succedere qualcosa, non esiti a tornare subito qui.»

Sala riunioni

«Regioni ipervariabili? Non capisco nemmeno una parola.»

Vanderbilt cercava di seguire l'esposizione di Sue, la quale si stava rendendo conto che chiedeva forse un po' troppo al suo uditorio. Peak la fissava, irritato. Judith Li non lasciava trapelare nulla, ma c'era da scommettere che le sue conoscenze di genetica non si spingessero fino a quel punto.

Johanson era seduto in mezzo a loro come un fantasma. Era comparso in ritardo, come pure Rubin, che, con imbarazzo, si era scusato per l'assenza. A differenza di Rubin, però, Johanson aveva un aspetto terribile. Il suo sguardo guizzava all'intorno, come se dovesse accertarsi che le persone intorno a lui fossero vere e non dei miraggi. Sue pensò che, dopo la riunione, gli avrebbe dovuto parlare.

«Vorrei prendere a esempio una normale cellula umana», disse. «In fondo, non è altro che un sacco pieno d'informazioni, con tutt'intorno una membrana. Il nucleo contiene i cromosomi, il complesso di tutti i geni. Insieme formano il genoma o DNA, la doppia elica, come sapete. Detto in modo informale, il nostro progetto di costruzione. Più un organismo è sviluppato, più quel progetto è differenziato. Grazie all'analisi del DNA, è possibile scoprire un assassino o chiarire rapporti di parentela, ma, nelle sue linee generali, il progetto è uguale per tutti gli esseri umani: piedi, gambe, busto, braccia, mani e così via. L'analisi del DNA ci dice quindi due cose. In generale: questo è un essere umano. In particolare: di quale persona si tratti.»

Sul volto dei presenti si accese una scintilla d'interesse. Evidentemente era stata una buona idea iniziare con qualche nozione basilare di genetica.

«È chiaro che le differenze tra due esseri umani, come individui, sono molto più numerose rispetto a quelle tra due organismi unicellulari della stessa specie. Statisticamente, il mio DNA mostra circa due milioni di piccole differenze rispetto a quello di tutte le altre persone. Le differenze tra un essere umano e un altro dipendono da una coppia di basi diversa ogni milleduecento coppie identiche. A sua volta, se si esaminano le cellule dello stesso essere umano, si trovano minime differenze, divergenze biochimiche nel DNA dovute a mutazioni. Se analizzate una cellula della mia mano sinistra e una del mio fegato, avrete quindi risultati diversi. Tuttavia, ognuna di esse dice senza possibilità di equivoco: si tratta di Sue Oliviera.» Fece una pausa. «Con gli organismi unicellulari ci sono meno problemi, perché, come dice il loro nome, si deve analizzare un'unica cellula. C'è un solo genoma e, dato che gli yrr si riproducono per scissione e non per accoppiamento, non avviene nessun miscuglio di cromosomi di mamma e papà. L'essere si duplica con tutte le informazioni genetiche e basta.»

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