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«Quindi se si conosce il DNA di un unicellulare si conosce anche quello di tutti gli altri», disse Peak con parole che sembravano essere sospese su un filo da equilibrista.

«Sì.» Sue gli regalò un sorriso. «È del tutto naturale. Una popolazione di unicellulari mostrerà sempre un genoma identico. Se lasciamo da parte le mutazioni occasionali, il DNA di tutti gli individui è identico.»

Rubin si mosse sulla sedia, irrequieto. Poi aprì e chiuse la bocca. Normalmente, a quel punto, avrebbe cercato d'inserirsi nel discorso. Che stupido, starsene a letto con l'emicrania, pensò Sue, soddisfatta. Tanto per cambiare, non sai quello che sappiamo noi. Devi tenere la bocca chiusa e ascoltare.

«Ma il problema inizia proprio qui», riprese. «A una prima occhiata, le cellule della gelatina sembrano identiche. Sono amebe, come si trovano negli abissi marini. Neppure particolarmente strane. Per poter descrivere tutto il loro DNA, dovremmo far lavorare diversi computer per alcuni anni. Ci limitiamo quindi ai controlli a campione. Isolando piccole sezioni di DNA otteniamo una parte del codice genetico, un amplicon, in termini tecnici. Ogni amplicon mostra una serie di coppie di base, il vocabolario genetico. Analizzando gli amplicon della stessa sezione di DNA di diversi individui e confrontandoli tra loro otteniamo interessanti informazioni. Gli amplicon di più individui della stessa popolazione dovrebbero dare un quadro più o meno come questo.»

Sollevò una stampata che aveva ingrandito apposta per la riunione.

Al : AATGCCAATTCCATAGGATTAAATCGA

A2: AATGCCAATTCCATAGGATTAAATCGA

A3: AATGCCAATTCCATAGGATTAAATCGA

A4: AATGCCAATTCCATAGGATTAAATCGA

«Vedete che le sequenze analizzate sono identiche in tutta la stringa. Quattro unicellulari identici.» Mise da parte il foglio e ne mostrò un secondo. «Invece abbiamo ottenuto questo.»

Al: AATGCCA CGATGCTACCTG AAATCGA

A2: AATGCCA ATTCCATAGGATT AAATCGA

A3: AATGCCA GGAAATTACCCG AAATCGA

A4: AATGCCA TTTGGAACAAAT AAATCGA

«Sono le sequenze di base dell'amplicon di quattro esemplari della gelatina. I DNA sono identici, tranne che per alcune piccole regioni ipervariabili. Non c'è nessuna affinità. Abbiamo esaminato dozzine di cellule. Alcune differiscono nelle regioni ipervariabili solo di poco, altre sono completamente diverse. Una cosa del genere non si può spiegare con la mutazione naturale. In altri termini: non può essere un caso.»

«Forse sono di specie diverse», disse Anawak.

«No. Senza dubbio è la stessa specie. Com'è pure indubbio che ogni essere vivente non può cambiare nel corso della vita il proprio codice genetico. Il progetto viene sempre per primo. Solo poi si costruisce, e ciò che è stato costruito può corrispondere unicamente a quel progetto e a nient'altro.»

Per lungo tempo nessuno parlò.

«Però, se quelle cellule sono diverse, devono avere trovato una strada per cambiare il loro DNA dopo essersi scisse», disse poi Anawak.

«Ma a che scopo?» chiese Alicia.

«Uomini», rispose Vanderbilt.

«Uomini?»

«Ma siete ciechi? La dottoressa Oliviera dice che non è opera della natura e non sento obiezioni da parte del dottor Johanson. Allora, chi ha cervello sufficiente per pensare a una cosa del genere? Quella sostanza è un'arma biologica. Solo gli uomini possono crearla», spiegò Vanderbilt.

«Obiezione», disse Johanson. Si passò una mano tra i capelli. «Non ha senso, Jack. Il vantaggio delle armi biologiche è che si ha bisogno solo di una ricetta base. Il resto è riproduzione…»

«Potrebbe essere un vantaggio anche se i virus fossero in grado di trasformarsi, no? Il virus dell'AIDS muta incessantemente, quando si pensa di aver scoperto il trucco, quello è già cambiato un'altra volta.»

«Ma qui abbiamo a che fare con un superorganismo, non con un'infezione virale. Deve esserci un altro motivo per quella diversità. Dopo la scissione, nel DNA succede qualcosa. Vengono codificati in maniera diversa. A chi interessa chi ne sia responsabile? Noi dobbiamo scoprire che senso ha.»

«Ha il senso di ucciderci tutti!» esclamò Vanderbilt, alterandosi. «Questa sostanza esiste per distruggere il mondo libero.»

«Va bene», ringhiò Johanson. «Allora la uccida. Dobbiamo controllare se sono cellule musulmane? Forse il loro DNA è un fondamentalista islamico. Così la questione sarebbe legittimata.»

Vanderbilt lo fissò. «Da che parte sta?»

«Da quella di chi vuole capire.»

«Capisce anche perché ieri notte ha battuto la testa?» ghignò Vanderbilt. «Dopo aver gustato una bottiglia di Bordeaux, beninteso. Come sta, dottore? Le fa male la testa? Perché non prova a tenere la bocca chiusa per un po'?»

«Perché lei non abbia troppo spesso l'occasione di aprire la sua.»

Vanderbilt sbuffò pesantemente. Sudava. Judith Li gli lanciò uno sguardo ironico in tralice e si chinò in avanti. «Lei sostiene che si tratta di codificazioni diverse, giusto?»

«Giusto», confermò Sue.

«Non sono una scienziata, ma non è pensabile che la codificazione abbia lo stesso scopo di un codice umano? Del codice in caso di guerra, per esempio?»

«Si», annuì la biologa. «Sarebbe ipotizzabile.»

«Codici per riconoscersi tra di loro.»

Karen scarabocchiò qualcosa su un foglio e lo passò ad Anawak, che lo lesse, fece un rapido cenno di assenso e lo mise da parte.

«Per quale motivo dovrebbero riconoscersi tra loro?» chiese Rubin. «E perché in un modo così complicato?»

«Mi pare sia lampante», disse Samantha.

Per un momento si sentì solo il fruscio del cellophane che lei stava togliendo dal suo pacchetto di sigarette.

«Lei che ne pensa?» chiese Judith Li.

«Penso che serva alla comunicazione», disse Samantha. «Queste cellule comunicano tra loro. È una forma d'intrattenimento.»

«Vuol dire che quella sostanza…» Greywolf la fissò.

Samantha Crowe portò la fiamma dell'accendino alla sigaretta, aspirò e soffiò fuori il fumo. «Sì. Voglio dire che comunica.»

Rampa

«Cos'è successo la notte scorsa?» chiese Sue, mentre scendevano verso il laboratorio.

Johanson scrollò le spalle. «Non ne ho la più pallida idea.»

«E ora come si sente?»

«Strano. Il mal di testa diminuisce progressivamente, però nei miei ricordi si è aperto un buco grande come il ponte dell'hangar.»

«Uno stupido incidente, vero?» Mentre camminava, Rubin si era girato verso di loro e digrignava i denti. «Così, entrambi abbiamo avuto il mal di testa. Entrambi! Dio mio, ero così a pezzi che non potevo neppure uscire. Mi dovete scusare, ma quando capita… Bang! Coma!»

Sue osservò Rubin con un'espressione indefinibile. «Emicrania?»

«Sì. Terribile! Va e viene. Non capita spesso, ma, quando arriva, è ormai troppo tardi. L'unica cosa che si può fare è prendere una supposta e spegnere la luce.»

«Ha dormito fino a stamattina?»

«Certo.» Rubin sembrava molto sicuro di sé. «Mi dispiace. Però si perde ogni controllo, sul serio. Altrimenti mi sarei fatto vedere.»

«E non l'ha proprio fatto?»

La domanda suonava strana. Rubin sorrise, irritato. «No.»

«Sicuro?»

«Lo saprei.»

Nella testa di Johanson scattò qualcosa. Si sentiva come un proiettore di diapositive rotto: la slitta cercava di prendere un'immagine, ma scivolava. Perché Sue aveva fatto quelle domande?

Si fermarono davanti alla porta del laboratorio, e Rubin inserì il codice numerico. La porta si aprì. Mentre Rubin entrava e accendeva le luci, Sue disse sottovoce a Johanson: «Ehi, ma che succede? Ieri sera era fermamente convinto di averlo visto».

Johanson la fissò. «Ero… cosa?»

«Mentre eravamo seduti sulla cassa a bere il vino, in attesa che la macchina per la sequenza finisse il suo lavoro», sussurrò Sue. «Ha detto di averlo visto.»

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