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«Che dovrebbe fare, secondo lei?»

«Girare.» La biologa si strinse nelle spalle. «Muovere le chele, che ne so. Lasciare la corazza. Osservate quei granchi. Se sono stati programmati per arrivare sulla terra, fare danni e infine crepare, si trovano in una situazione davvero difficile. Non arriva nessuno a dare nuovi ordini. Stanno girando a vuoto.»

«Appunto», annuì Johanson, spazientito. «Sono letargici e noiosi e si comportano come giocattoli a molla. La penso come Mick. Questi corpi di granchio sono stati allevati già morti; è rimasta solo un po' di massa nervosa e sono un'armatura per chi ci sta dentro. E adesso voglio costringere chi è là dentro a uscire, capite? Voglio sapere come si comporta quella cosa nell'ambiente degli abissi marini se qualcuno la costringe a lasciare la corazza.»

«Va bene», approvò Sue. «Vediamo di esplorare quella sostanza gelatinosa.»

Lasciarono la passerella, scesero e si avviarono alla console di comando. Il computer permetteva di controllare diversi robot all'interno della cisterna. Johanson scelse una piccola unità ROV a due componenti, di nome Spherobot. Su un quadro di comando, munito di due joystick, erano accesi diversi monitor ad alta risoluzione. Uno mostrava l'interno del simulatore. Il grandangolo dello Spherobot consentiva di vedere tutta la cisterna, ma riportava l'immagine come se fosse distorta dall'occhio di un pesce.

«Quanti ne apriamo?» chiese Sue.

Le mani di Johanson scivolarono sulla tastiera del comando manuale e l'angolazione della telecamera si alzò leggermente. «Quanti ne servono per una buona cena», rispose. «Almeno una dozzina.»

Una delle parti più strette della cisterna somigliava a un garage aperto a due piani in cui si trovavano alcuni robot sottomarini di diverse dimensioni e teleguidati. Non sarebbe stato possibile operare in altro modo in quel mondo artificiale; inoltre il garage offriva ai costruttori degli AUV e dei ROV la possibilità di testare i loro prodotti nelle condizioni estreme degli abissi marini.

Nel momento in cui Johanson attivò il sistema di guida, sotto uno dei robot si accese una potente luce e due eliche cominciarono a girare. Una slitta rettangolare delle dimensioni di un carrello da supermercato scivolò lentamente fuori dal garage. La parte superiore era coperta e piena di apparecchiature tecnologiche; quella inferiore consisteva in una cesta vuota con pareti dalle maglie fittissime. Il robot scivolò sul fondale marino artificiale verso i granchi e si fermò a breve distanza da un gruppo immobile. Si vedevano chiaramente il guscio arcuato completamente privo di occhi e le potenti chele.

«Passo alla sfera», disse Johanson.

L'immagine deformata divenne una ripresa chiara e precisa.

Dalla slitta che pendeva immobile sopra i granchi, scese una sfera smaltata di rosso, non più grande di un pallone da calcio. Era quella a dare il nome al veicolo. Il modo in cui scendeva — collegata solo da un cavo all'apparecchio più grande, con l'occhio splendente dell'obiettivo che fissava dritto davanti a sé — ricordava il piccolo robot da combattimento con cui, in Guerre stellari, Luke Skywalker si allenava con la spada laser. In effetti, lo Spherobot, coi suoi sei piccoli reattori per la guida, imitava il modello cinematografico fin nel dettaglio. Dopo un breve tratto, si abbassò lentamente e poi si fermò al di sopra dei granchi, i quali non ebbero nessuna reazione, neppure quando la sfera rossa si aprì e, dal suo interno, uscirono due bracci sottili e snodati. Un arsenale di strumenti prese a ruotare alle due estremità. Poi, a sinistra, uscì una tenaglia e, a destra, una sega. Le mani di Johanson sui joystick si mossero con cautela in avanti e i bracci del robot nella cisterna seguirono il suo movimento.

«Hasta la vista, baby», disse Sue, imitando Schwarzenegger.

Le tenaglie scesero, afferrarono un granchio e lo sollevarono davanti alla telecamera. Sul monitor, l'animale aveva le dimensioni di un mostro. La sua bocca si mosse, le zampe si dimenarono, ma le chele restavano inerti. Johanson fece ruotare le tenaglie di trecentosessanta gradi e osservò attentamente il comportamento dell'animale mentre veniva girato.

«La motricità è perfetta», commentò. «Il sistema motorio funziona.»

«In compenso ci sono reazioni atipiche», notò Rubin.

«Non divarica le chele, non ha atteggiamenti minacciosi. Questo è semplicemente un automa, una macchina che cammina.» Mosse il secondo joystick e schiacciò un pulsante nella parte superiore, mettendo in azione la sega circolare. Quindi la portò sul fianco della corazza. Per un attimo le zampe del granchio si mossero freneticamente.

La corazza si ruppe e ne uscì qualcosa di lattiginoso, che rimase sospeso per un attimo sopra l'animale spaccato.

«Mio Dio», si lasciò sfuggire Sue.

Quella cosa non somigliava né a una medusa né a una seppia. Era totalmente priva di forma. I suoi bordi erano come percorsi da onde e il corpo si gonfiava e si appiattiva. Johanson ebbe la sensazione che nel suo interno si muovesse un fulmine, ma, nell'illuminazione abbagliante della cisterna, quella poteva anche essere un'illusione ottica. Mentre lui stava riflettendo, improvvisamente l'essere si trasformò in qualcosa di allungato, simile a un serpente, e sparì.

Johanson imprecò, prese il granchio successivo e lo tagliò. Stavolta accadde ancora più in fretta e l'interno gelatinoso scomparve ancor prima che potessero osservarlo attentamente.

«Accidenti!» Rubin era evidentemente agitato. «Cose da pazzi! Che razza di roba è?»

«Qualcosa che scappa», ringhiò Johanson. «Seccante. Come facciamo a prendere quella robaccia?»

«Ma non l'abbiamo già presa?»

«Sì, due cose svolazzanti, grandi come una pallina da tennis senza forma e colore in una piscina. E come le troviamo?»

«Il prossimo lo aprirei direttamente nella cesta del robot», suggerì Sue.

«È aperta nella parte anteriore, scapperà.»

«No, non lo farà. La cesta si può chiudere, basta essere sufficientemente rapidi.»

«Non so se ci riusciremo.»

«Ci provi.»

Sue aveva ragione. Nella parte anteriore della cesta del robot c'era un coperchio a maglie; chiudendolo, la cesta si trasformava in una gabbia. Johanson afferrò un altro animale, girò la sfera di centottanta gradi e la portò verso il robot trasportatore, finché il suo braccio elettronico non si distese all'interno della gabbia. Lì appoggiò la sega circolare sul lato del granchio.

La corazza si frantumò.

Non accadde nulla.

«Vuoto?» si meravigliò Rubin.

Attesero qualche secondo, poi Johanson riportò lentamente indietro il robot sferico.

«Merda!»

L'essere gelatinoso era scivolato fuori dal corpo del granchio, ma aveva scelto la direzione sbagliata. Sbatté violentemente contro la parete posteriore della cesta, si raccolse in forma di palla tremolante e rimase davanti all'inferriata. Il suo disorientamento — ammesso che si potesse definirlo così — durò solo un istante.

La cosa si allungò.

«Vuole scappare!» gridò Sue.

Johanson portò indietro lo Spherobot, che sbatté contro una parete laterale e poi uscì. Uno dei bracci riuscì a prendere il coperchio e lo sollevò.

La cosa si appiattì completamente e poi si lanciò in avanti. A pochi centimetri dalla copertura, fece un balzo indietro e cambiò ancora forma. I suoi bordi si stesero finché essa non rimase sospesa in acqua, come una campana trasparente che occupava quasi la metà della gabbia. Il corpo si piegò. Per qualche secondo sembrò una medusa, poi tornò ad arrotolarsi. Un momento dopo, a galleggiare nella gabbia, c'era di nuovo una palla.

«Una follia», sussurrò Rubin.

«Guardate un po'», esclamò Sue. «Si sgonfia.»

In effetti, la sfera si stava ritirando e perdeva trasparenza. Divenne lattiginosa.

«Il tessuto si contrae», disse Rubin. «Quella cosa può cambiare la propria densità molecolare.»

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