Nel mar di Groenlandia era stata fermata la caduta delle acque fredde. La conseguenza era stata il blocco della Corrente del Golfo. Solo due cause potevano spiegare quel fenomeno: un improvviso riscaldamento del mare o un eccessivo afflusso di acqua dolce proveniente dall'Artico, che diluiva l'acqua salata dell'Atlantico settentrionale rendendola troppo leggera per precipitare. Entrambe le cose presupponevano una profonda manipolazione delle condizioni di quel luogo. Gli yrr erano impegnati a condurre a termine quel mostruoso sconvolgimento da qualche parte nell'Artico.
Da qualche parte, nelle vicinanze.
Restava l'aspetto della sicurezza. Lo stesso Bohrmann, che era abituato a temere il peggio, ammetteva che il rischio di un blow-out di metano nel bacino abissale della Groenlandia era molto basso. La nave di Bauer era stata colpita nei pressi delle isole Svalbard, e là, sulla scarpata continentale, erano stipate massicce quantità di idrati. Sotto la chiglia dell'Independence si stendevano tremilacinquecento metri d'acqua. Probabilmente, così in profondità, c'era assai meno metano, e comunque non abbastanza per far affondare una nave delle dimensioni dell'Independence. Tuttavia, per ogni evenienza, nel corso del viaggio erano stati eseguiti regolari rilevamenti sismici, per scoprire giacimenti di metano nel fondale marino e trovare così una posizione che ne fosse priva. Anche uno tsunami, per quanto dirompente verso la terraferma, lì al largo sarebbe stato appena percettibile, almeno finché non fosse smottata La Palma.
Ma in quel caso sarebbe stato comunque troppo tardi.
Era quello il motivo per cui si trovavano lì, tra i ghiacci eterni.
Erano seduti nella mensa degli ufficiali, gigantesca e deserta, a mangiare uova strapazzate e pancetta. Anawak e Greywolf non c'erano. Dopo la sveglia, Johanson aveva parlato al telefono per qualche minuto con Bohrmann, che era arrivato a La Palma e stava preparando l'operazione con l'aspiratore. Le Canarie erano un'ora indietro, ma Bohrmann era già in piedi da diverse ore. «Il lavoro lo fa un tubo aspirante lungo cinquecento metri», aveva detto, ridendo.
«Pulite bene anche negli angoli», gli aveva consigliato Johanson.
Bohrmann gli mancava. D'altra parte, a bordo dell'Independence, non c'era carenza di personaggi singolari. Stava parlando con Samantha, quando entrò Floyd Anderson, il primo ufficiale, reggendo un contenitore termico grande come una pentola, con la scritta USS WASP LHD-8. Anderson andò al tavolo delle bibite e lo riempì fino all'orlo di caffè. Poi latrò: «Abbiamo visite».
Tutti lo guardarono.
«Un contatto?» chiese Sue.
«Lo saprei.» Samantha prese un'enorme porzione di pancetta. Nel portacenere, c'era la sua terza o quarta sigaretta, ancora accesa. «Shankar è nel CIC. Ci avrebbe informati.»
«Che cosa c'è allora? È atterrato qualcuno?»
«Uscite in coperta», replicò Anderson con aria misteriosa. «E lo vedrete.»
Ponte di volo
All'esterno, sul volto di Johanson si appoggiò una maschera di freddo. Il cielo era di un bianco indefinito. Le onde grigie sollevavano creste schiumose. Durante la notte si era alzato il vento e soffiava cristalli di ghiaccio sottili come aghi sulla superficie asfaltata. Johanson scorse un gruppo di persone imbacuccate e, avvicinandosi, riconobbe Judith Li, Anawak e Greywolf. Poi immediatamente capì che cosa aveva attirato la loro attenzione.
A una certa distanza dall'Independence, un appuntito profilo di pinne dorsali era emerso dal mare.
«Orche», spiegò Anawak, quando Johanson gli fu vicino.
«Che cosa fanno?»
Anawak socchiuse le palpebre contro la pioggia di aghi di ghiaccio. «È da circa tre ore che girano intorno alla nave. I delfini ne hanno annunciato la presenza. Direi che ci osservano.»
Shankar arrivò di corsa e si mise di fianco a loro. «Che succede?»
«Forse è una risposta» disse Samantha.
«Al nostro messaggio?»
«E a cosa, sennò?»
«Strana, come risposta a una verifica di matematica», disse Shankar. «Avrei preferito qualche sostanziosa equazione.»
Le orche si tenevano prudentemente a distanza dalla nave. Erano molte. Centinaia, valutò Johanson. Nuotavano con un ritmo regolare e, di tanto in tanto, sollevavano il dorso nero. In effetti dava proprio l'impressione che fossero una pattuglia.
«È possibile che siano infestate?»
«Probabile.»
«Dite un po'…» Greywolf si grattò la testa. «Se quella robaccia controlla il loro cervello… non avete mai pensato che ci possano anche vedere? E sentire?»
«Hai ragione», disse Anawak. «Usano i loro organi di senso.»
«Appunto. Così quella sostanza gelatinosa ha occhi e orecchie.»
«A ogni buon conto, sembra proprio che sia cominciata», disse Samantha, soffiando nell'aria gelida il fumo che venne immediatamente portato via.
«Che cosa?» chiese Judith Li.
«La prova di forza.»
«Bene.» Un sorriso sottile le increspò le labbra. «Siamo attrezzati per ogni evenienza.»
«Per quelle che conosciamo», precisò Samantha.
Laboratorio
Mentre scendeva — con Mick Rubin e Sue Oliviera al seguito -, Johanson si chiedeva se la psicosi non avesse già cominciato a creare nella loro mente una realtà allucinata.
Il processo l'aveva messo in moto lui. Certo, se non l'avesse fatto lui, sarebbe stato qualcun altro a elaborare quella teoria. I fatti si disponevano sulla base di un'ipotesi. Un branco di orche circondava l'Independence e loro ci vedevano gli occhi e le orecchie degli alieni. Vedevano alieni ovunque. Quindi avevano mandato dei messaggi nel mare con la speranza di allacciare un contatto, che magari non ci sarebbe mai stato perché erano stati attaccati da una muffa marina.
Il quinto giorno. Era solo una fantasia che ormai si autoalimentava? Si stavano comportando da idioti? Non riusciamo ad andare avanti, pensò, frustrato. Qualcosa deve succedere. Qualcosa che ci dia la certezza che non ci stiamo muovendo nella direzione sbagliata, accecati dalle teorie.
Scesero la rampa coi passi che rimbombavano, passarono l'hangar e continuarono a scendere. La porta d'acciaio del laboratorio era chiusa. Johanson inserì un codice numerico ed essa scivolò con un leggero sibilo. Lui regolò l'illuminazione del soffitto e quella delle postazioni. Una luce fredda e bianca invase le isole di lavoro. Dal simulatore arrivava il ronzio dei sistemi elettrici. Salirono sulle passerelle tutt'intorno alla cisterna ad alta pressione e si misero davanti alla grande finestra ovale. Da lì si dominava l'interno della vasca. Sul fondale marino artificiale, nella luce dei proiettori, c'erano piccoli esseri, con zampe da ragno. Alcuni si muovevano esitanti, evidentemente disorientati. Si spostavano in cerchio oppure si fermavano dopo qualche passo, come se non sapessero dove andare. Più si guardava in profondità nella cisterna, più l'acqua rendeva difficile cogliere i dettagli. Alcune telecamere facevano riprese ravvicinate dall'interno e le proiettavano sui monitor di un banco di controllo.
Tutti osservarono i granchi con sgomento.
«Non hanno fatto granché da ieri», notò Sue.
«No, se ne stanno rannicchiati e aumentano le nostre perplessità.» Johanson si strofinò la barba. «Dovremmo aprirne qualcuno e vedere che succede.»
«Aprire i granchi?»
«Perché no? Che continuano a vivere con l'alta pressione ormai lo sappiamo. Non è che questa conoscenza acquisti interesse col passare dei giorni.»
«Continuano a vegetare», lo corresse Sue. «Non abbiamo ancora spiegato se quello che fanno può essere definito 'vivere'.»
«La sostanza al loro interno vive», intervenne Rubin, pensieroso. «Il resto non è più vivo di un'automobile.»
«D'accordo», disse Sue. «Ma com'è questa vita che hanno all'interno? Perché non fa nulla?»