Dopo un po' si vestì, si tirò con cura sulle orecchie il berretto foderato di pelliccia e uscì nella notte luminosa. Per strada non c'era nessuno. Camminò per un'ora buona nel villaggio, finché non sentì arrivare la stanchezza, molto più pesante e gradevole rispetto all'intontimento provato davanti al televisore. Ritornò nell'hotel riscaldato, gettò i vestiti sul pavimento, si avvolse bene nelle coperte e si addormentò non appena ebbe posato la testa sul cuscino.
Il mattino seguente chiamò Akesuk. «Hai voglia di fare colazione con me?» chiese.
Lo zio sembrava sorpreso. «Mary-Ann e io stiamo appunto facendo colazione. Non pensavo che volessi…»
«Okay. Non c'è problema.»
«No, aspetta… Abbiamo appena iniziato. Perché non vieni a gustarti una sostanziosa porzione di uova strapazzate col prosciutto?»
«Va bene. Arrivo.»
La porzione che Mary-Ann gli mise davanti si poteva definire davvero sostanziosa. Anawak si sentì pieno solo a guardarla, ma stoicamente la finì. La donna era raggiante. Si chiese cosa le avesse raccontato Akesuk. Doveva essersi inventato qualche valido motivo per spiegare come mai lui avesse rifiutato la sua cena. Comunque non sembrava risentita.
Era strano stringere la mano che gli porgevano Akesuk e la moglie. Lo riportava alla sua famiglia. Anawak non sapeva ancora se gli piaceva. La magia della notte di luna era svanita e lui non aveva ancora stilato un vero e proprio trattato di pace col Nunavut. Ma era deciso ad accogliere — con prudenza — tutto quello che sarebbe venuto.
Dopo colazione, Mary-Ann sparecchiò e poi disse che sarebbe andata in paese a fare compere. Akesuk girò la manopola di una radio a transistor, ascoltò per un minuto, poi mormorò: «È un bene».
«Che cosa?» chiese Anawak.
«La IBC dice che nei prossimi giorni ci sarà bel tempo. Non bisogna prenderli alla lettera, ma, se è vero anche solo la metà, potremo andare all'aperto.»
«Davvero?»
«Sì, per un po'. Domani. Se ti va, oggi possiamo fare qualcosa insieme. A proposito, che progetti hai? Vuoi tornare subito in Canada?»
La vecchia volpe l'aveva intuito.
Anawak continuava ad aggiungere latte al suo caffè. «Per essere sincero, ieri sera avevo deciso così.»
«Non è una sorpresa», constatò Akesuk seccamente. «E adesso?»
«Ancora non lo so», rispose Anawak. «Forse andrò a Mallikjuaq oppure a Inuksuk Point. A Cape Dorset non mi sento a mio agio, Iji. Non volermene. Non è un luogo che ricordi volentieri con un… un…»
«Con un padre come il tuo», completò la frase lo zio. Si accarezzò i baffi e annuì. «Quello che più mi meraviglia è che tu sia tornato. Per diciannove anni non hai avuto contatti con nessuno di noi. E io sono rimasto l'ultimo della tua famiglia. Ho telefonato solo perché ritenevo giusto informarti, ma neppure nei miei sogni più folli ho creduto che ti avremmo visto qui. Allora, perché sei venuto?»
«Non ne ho idea, Iji. Non c'è nulla che mi abbia spinto. A dire la verità, credo che Vancouver mi volesse allontanare per un po'.»
«Stupidaggini.»
«Di certo non per mio padre! Sai maledettamente bene che non verso una lacrima per lui.» Il suo tono era stato davvero brusco, ma lui non poteva farci niente. «E non succederà mai.»
«Sei troppo duro.»
«La sua vita è stata tutta sbagliata, Iji!»
Akesuk lo guardò a lungo. «Sì, è vero. Ma, in passato, non c'era la possibilità di condurre una vita giusta. Sembra che tu lo abbia dimenticato.» Bevve rumorosamente gli ultimi sorsi di caffè. «Sai una cosa? Ti faccio una proposta», esclamò, ridacchiando. «Mary-Ann e io partiamo oggi. Stavolta vogliamo andare da un'altra parte, a nord-ovest, verso Pond Inlet. E tu vieni con noi.»
Anawak lo fissò. «Non posso… Starete vìa per settimane e io non posso assentarmi per tanto tempo. A prescindere dal fatto che comunque non voglio.»
«Mi hai frainteso. Vieni con noi solo per un paio di giorni, poi torni indietro da solo. Non devo tenerti per mano, sei grande. Spero che tu sia capace di trovarti da solo un aereo.»
«È troppo complicato, Iji, io…»
«Con le tue complicazioni mi stai proprio annoiando. Che c'è di complicato nel portarti sul ghiaccio con noi? Lassù ci uniremo a un gruppo. È già tutto preparato e troveremo un posticino anche per il tuo… civilizzato posteriore.» Gli strizzò l'occhio. «Ma non pensare che sia una passeggiata. Anche tu dovrai fare i turni di guardia contro gii orsi, come tutti gli altri.»
Anawak si appoggiò allo schienale e rimuginò. Quell'invito lo aveva colto impreparato. Era pronto solo a quei due giorni… anzi a un giorno soltanto. Non a tre o quattro.
Come l'avrebbe spiegato a Judith Li?
D'altra parte, lei gli aveva lasciato intendere che poteva restare via quanto voleva.
Pond Inlet. Tre giorni.
In realtà non erano tanti. Il volo da Cape Dorset avrebbe richiesto al massimo due ore. Tre giorni all'aperto, indietro in due ore, direttamente a Iqaluit. «E tu che cosa ti riprometti con questo invito?» chiese.
Akesuk rise. «Di riportarti a casa, ragazzo. Che altro?»
All'aperto.
In quelle due parole si condensava la filosofia di vita degli inuit. «Essere all'aperto» significava sfuggire agli insediamenti, trascorrere le giornate estive negli accampamenti lungo le spiagge o sulle rive ghiacciate per catturare narvali e cacciare foche e trichechi. Agli inuit era permessa la caccia alle balene, limitatamente al loro fabbisogno. Si prendeva il necessario per la sopravvivenza al di fuori della civiltà, si caricavano vestiti, attrezzature e strumenti da caccia sugli ATV o sulle barche. Il luogo verso cui sarebbero partiti era selvaggio, un'area gigantesca che gli inuit avevano percorso da tempo immemorabile, prima che la civiltà li costringesse — loro malgrado — a diventare stanziali.
All'aperto, le strutture intorno alle quali si organizzava la vita nelle città non avevano più significato. Le distanze non erano misurate in chilometri o miglia, ma in unità di tempo. Due giorni per arrivare là, mezza giornata per raggiungere quell'altro posto, forse una giornata soltanto… Che senso aveva parlare di cinquanta chilometri, se in mezzo c'erano barriere impreviste come il pack o i crepacci? La natura non si sottometteva a un progetto. All'aperto si viveva esclusivamente nel presente, perché già l'istante successivo poteva essere pieno di avvenimenti imponderabili. La campagna seguiva un ritmo proprio, cui ci si sottometteva volontariamente. Nel loro lunghissimo periodo nomade, gli inuit avevano imparato che in quella sottomissione c'era il dominio. Fino alla metà del XX secolo avevano percorso la campagna senza legami, e ancora oggi quella vita rispondeva meglio alla loro natura che un'esistenza dentro le case e in un unico luogo.
Anawak si rese conto con maggiore chiarezza dei cambiamenti avvenuti. Sembrava che gli inuit avessero accettato quello che il mondo aveva chiesto loro: le attività regolari necessarie per svolgere un ruolo nella società industriale. Ma, al contrario di quando lui era bambino, il mondo aveva iniziato ad accettare gli inuit. Rendeva qualcosa di ciò che si era preso e soprattutto dava loro una prospettiva. Gli standard occidentali trovavano spazio nel mondo inuit esattamente come le tradizioni più antiche.
Anawak aveva lasciato il suo paese quando aveva smesso di essere tale, diventando invece una regione senza consapevolezza della propria identità. Era scappato, portandosi appresso l'immagine di un popolo profondamente depresso, privo di energie, e al quale era stata negata ogni forma di rispetto per così tanto tempo che, alla fine, aveva addirittura smesso di averne per se stesso. A quel tempo, l'unico che avrebbe potuto correggere quell'immagine era suo padre. Invece era proprio lui a esserne in gran parte responsabile. L'uomo che adesso si trovava nel piccolo cimitero di Cape Dorset era diventato il simbolo di quella rassegnazione: un individuo infelice, collerico e alcolizzato, che aveva fallito in tutto, anche nel proteggere la sua famiglia. Mentre Anawak si allontanava da Cape Dorset, aveva gridato dalla nave — e nella nebbia — una frase che nessuno oltre a lui poteva sentire, pensata per suo padre e per tutto il suo popolo. E quella frase adesso gli rimbombava nelle orecchie: «Perché non vi uccidete tutti, in modo che non ci si debba più vergognare di voi?»