Decise di farlo.
Nove piani sotto di lei, Leon Anawak notò un bell'uomo coi capelli brizzolati e la barba. Stava attraversando lo spiazzo antistante l'hotel accompagnato da una donna piccola e abbronzata, con una gran massa di riccioli castani e le spalle larghe, che indossava jeans e una giacca di pelle. Anawak valutò che avesse poco meno di trent'anni. I nuovi arrivati portavano un bagaglio che fu immediatamente preso in carico dagli inservienti dell'hotel. La donna scambiò qualche parola con l'uomo con la barba, si guardò intorno e, per un momento, fissò lo sguardo su Anawak. Poi si scostò i riccioli dalla fronte e sparì nella hall.
Anawak rimase a fissare il punto in cui, fino a poco prima, c'era la donna. Poi alzò la testa, si riparò gli occhi dai raggi obliqui del sole e lasciò scorrere lo sguardo sulla facciata neoclassica dello Château.
L'hotel di lusso sorgeva in un panorama da sogno, che corrispondeva perfettamente all'immagine stereotipata del Canada. Da Vancouver si prendeva la Highway 99 lungo la Horseshoe Bay e si raggiungevano le montagne: lì si trovava il gigantesco hotel, che sorgeva in mezzo a una foresta su un dolce pendio circondato da imponenti cime, che splendevano di bianco anche durante i mesi estivi. Le montagne Blackcomb e Whistler formavano una delle zone sciistiche più belle del mondo. Ora, in maggio, gli ospiti venivano lì prevalentemente per giocare a golf e per fare passeggiate. Si poteva esplorare la zona con la mountain bike, oppure essere portati sulle nevi eterne con l'elicottero. Lo Château disponeva anche di un ristorante eccezionale e offriva ogni comfort immaginabile.
Ma tutto ciò era ovvio, dato che il luogo era così remoto. Meno ovvia era la dozzina di elicotteri militari che stazionavano nelle vicinanze.
Anawak era arrivato da due giorni. Aveva collaborato nella preparazione della conferenza di Judith Li insieme con Ford, che da ventiquattr'ore volava avanti e indietro tra l'acquario di Vancouver, Nanaimo e lo Château Whistler per visionare il materiale, analizzare i dati e riportare le ultime conoscenze acquisite. Il ginocchio gli faceva ancora male, ma non zoppicava più. La limpida aria di montagna aveva in qualche modo snebbiato i suoi pensieri e lo sconforto seguito all'incidente con l'idrovolante si era trasformato in un dinamismo nervoso.
Nel frattempo erano accadute così tante cose che la sua cattura da parte della pattuglia militare sembrava lontanissima. Eppure, da quando aveva incontrato Judith Li — in una situazione penosa, doveva ammetterlo — non erano ancora passate due settimane. Gli errori da dilettante compiuti da Anawak durante la sua «missione notturna» avevano divertito non poco Judith Li. Ovviamente l'avevano tenuto d'occhio fin dal suo arrivo in auto e lo avevano seguito mentre percorreva la banchina. Poi si erano limitati a osservarlo, cercando di capire cosa avesse intenzione di fare. Infine l'avevano catturato e Anawak si era vergognato a tal punto da convincersi che non avrebbe mai più avuto il coraggio di mettere piede fuori di casa.
Invece l'aveva fatto, eccome. Non doveva più gettare le sue conoscenze nel buco nero dell'unità di crisi, dato che adesso si trovava al centro del buco nero che inghiottiva tutto, come John Ford e, da poco, Sue Oliviera. Adesso poteva conferire anche con Roberts della Inglewood, il quale era stato il primo a protestare per il silenzio che gli era stato imposto in alto loco. Imbavagliato da Judith Li, Roberts era stato costretto a negarsi. In un paio di casi, era addirittura vicino al telefono, mentre la sua segretaria buttava fumo negli occhi ad Anawak.
La conferenza era pronta e Anawak non poteva far altro che aspettare. Così era andato a giocare a tennis, per vedere come il ginocchio avrebbe reagito allo sforzo. Intanto il mondo precipitava nel caos e l'Europa era sommersa da montagne d'acqua. Il suo partner di gioco era un francese piccolo, con le sopracciglia cespugliose e il naso prominente. Si chiamava Bernard Roche, un batteriologo arrivato la sera prima da Lione. Mentre l'America si scontrava coi più grandi animali del pianeta, Roche stava combattendo una battaglia disperata contro i più piccoli.
Anawak guardò l'orologio: si sarebbero trovati tra mezz'ora. L'hotel era chiuso ai turisti e strettamente controllato dal governo, tuttavia era pieno come in alta stagione. Dovevano essere arrivate alcune centinaia di persone. Oltre la metà apparteneva in un modo o nell'altro all'United States Intelligence Community. Erano in maggioranza collaboratori della CIA, che avevano trasformato in tutta fretta lo Château in una centrale di comando. Era presente un intero reparto dell'NSA, la National Security Agency, attrezzato per ogni possibile spionaggio elettronico, per garantire la riservatezza dei dati e per la cartografia. L'NSA occupava il quarto piano. Il quinto era riservato ai collaboratori del dipartimento della Difesa statunitense e ai servizi segreti canadesi. Al sesto alloggiavano gli esponenti del SIS britannico e del Security Service, insieme con delegazioni dell'esercito e dei servizi segreti tedeschi. I francesi avevano mandato un gruppo della Direction de la Surveillance du Territoire ed erano presenti anche i servizi segreti svedesi e il finlandese Pääesikunnan Tiedusteluosasto. Era un incontro senza precedenti di servizi segreti, un impiego senza pari di uomini e mezzi con lo scopo di riuscire a comprendere quello che stava succedendo nel mondo.
Anawak si massaggiò la gamba.
Sentiva ancora delle punture dolorose. Non avrebbe dovuto giocare a tennis. Un altro elicottero militare si preparava all'atterraggio e la sua ombra coprì Anawak, che lo guardò per un istante, poi si girò e rientrò.
C'era gente ovunque. Tutti si muovevano in fretta, veloci ma senza frenesia, come in un complicato balletto messo in scena sotto il tetto a spioventi della hall, simile a quello di una chiesa. La metà delle persone sembrava costantemente impegnata al telefono. Gli altri erano di fronte ai loro laptop e stavano seduti su accoglienti gruppi di poltroncine sotto i pilastri di pietra naturale che dividevano la «navata» centrale della hall da quelle laterali: scrivevano o fissavano concentrati lo schermo. Anawak cercò di non urtare nessuno mentre si dirigeva al bar, dove c'erano John Ford e Sue Oliviera. Erano in compagnia di un uomo alto, coi baffi, che si guardava intorno con aria infelice.
Toccò a Ford occuparsi delle presentazioni. «Leon Anawak… Gerhard Bohrmann. Non stringere troppo forte la mano a Gerhard, Leon, altrimenti si stacca.»
«Gomito del tennista?» chiese Anawak.
«Penna a sfera.» Bohrmann fece un sorriso amaro. «Ho scritto sotto dettatura per un'ora intera quello che fino a due settimane fa avrei potuto richiamare con un clic. Sembra di essere nel Medioevo.»
«Credevo che si potessero usare i satelliti.»
«I satelliti sono sovraccarichi», gli fece notare Ford.
«Da domani dovrebbe essere tutto a posto.» Sue sorseggiò il tè. «Ho sentito dire che hanno allestito una rete solo per l'hotel.»
«A Kiel non siamo sufficientemente preparati per il satellite», commentò Bohrmann, cupo.
«Nessuno è preparato a tutto ciò.» Anawak ordinò dell'acqua. «Quand'è arrivato?»
«L'altro ieri. Ho collaborato alla preparazione della conferenza.»
«Anch'io. Strano, evidentemente non ci siamo incontrati.»
«Possibile.» Bohrmann scosse la testa. «Quest'hotel è pieno di corridoi. Qual è la sua specializzazione?»
«Mammiferi marini. Ricerca sull'intelligenza.»
«Leon ha alle spalle un paio d'incontri non troppo piacevoli con delle megattere», intervenne Sue. «Evidentemente non hanno gradito che lui continuasse a spiare nelle loro teste… Oh! Guardate là. Che ci fa qui?»
Tutti voltarono la testa verso la hall. Un uomo si stava dirigendo verso agli ascensori. Anawak riconobbe in lui il tizio visto pochi minuti prima insieme con la giovane donna dai riccioli castani.