«E chi sarebbe?» chiese Ford aggrottando la fronte.
«Non andate mai al cinema?» Sue scrollò la testa. «È quell'attore tedesco. Come si chiama? Scholl… no, Schell. È Maximilian Schell! È splendido, non trovate? Dal vero è ancora meglio che sullo schermo.»
«Controllati», borbottò Ford. «Che ci fa qui un attore?»
«Sue potrebbe avere ragione», disse Anawak. «Non ha forse recitato in quel film catastrofico… Sì, Deep impact! La Terra viene colpita da un meteorite e…»
«Tutti noi stiamo recitando in un film catastrofico», lo interruppe Ford. «Non dirmi che non te ne sei accorto.»
«Questo vuol dire che dobbiamo aspettarci l'arrivo di Bruce Willis?»
Sue strabuzzò gli occhi. «È lui o no?»
«Si risparmi la fatica di andare a chiedergli un autografo», rise Bohrmann. «Non è Maximilian Schell.»
«No?» Sue sembrava delusa.
«No. Si chiama Sigur Johanson ed è norvegese. Potrebbe raccontarvi qualcosa di ciò che è successo nel mare del Nord. Lui, io, alcune persone di Kiel e altri della Statoil…» Bohrmann scrutò l'uomo e la sua espressione tornò a incupirsi. «Ma è meglio se non gli chiedete nulla. O, meglio, lasciate che sia lui a parlarne per primo. Viveva a Trondheim e di Trondheim non è rimasto molto. Ha perso la sua casa.»
Quello era l'orrore reale. La prova che le immagini televisive erano vere. Anawak bevve l'acqua.
«Okay.» Ford guardò l'orologio. «Abbiamo ciondolato abbastanza. Andiamo su e sentiamo quello che hanno da dirci.»
Lo Château disponeva di diverse sale riunioni. Judith Li aveva scelto uno spazio di media grandezza, quasi troppo piccolo per il gruppo di agenti dei servizi segreti, rappresentanti degli Stati e scienziati che avrebbe preso parte alla conferenza, ma sapeva per esperienza che le persone sedute molto vicine o si prendono per i capelli o sviluppano un forte spirito di gruppo. In nessun caso, comunque, hanno la possibilità di mantenere le distanze o d'intrattenersi su altri argomenti. Inoltre, sempre con quell'intento, la sistemazione dei posti non seguiva criteri di accorpamento per nazionalità o specializzazione.
Ogni posto disponeva di un tavolinetto, di un blocco per gli appunti e di un laptop. Per i supporti video della conferenza c'era uno schermo di tre metri per cinque, dotato di casse acustiche: su di esso sarebbe stata proiettata una presentazione realizzata con Powerpoint. Nell'atmosfera accogliente ma spartana di quell'ambiente, la concentrazione di strumenti high-tech appariva straniante e artificiale.
Comparve Peak e andò a sedersi in uno dei posti riservati ai relatori. Lo seguiva un uomo tondo come una palla, che indossava un abito sgualcito e con grosse chiazze scure sotto le ascelle della giacca. Aveva i capelli radi, di un biondo quasi bianco. Tese la mano a Judith Li, ansimando rumorosamente. Le sue dita erano gonfie e rotonde come palloncini. «Salve, Suzie Wong», disse.
Judith Li strinse la mano di Vanderbilt e resistette alla tentazione di asciugarsela immediatamente sui pantaloni. «Jack, è un piacere vederla.»
«Come sempre.» Vanderbilt sorrise. «Offra a quei signori un bello show, mi raccomando. Se nessuno applaude, faccia uno strip-tease e potrà contare sui miei applausi.» Si passò la mano sulla fronte sudata, sollevò un pollice e poi, facendo l'occhiolino, si sedette pesantemente vicino a Peak. Judith lo osservò con un sorriso gelido. Vanderbilt era il vice direttore della CIA, un uomo davvero in gamba. E, al momento opportuno, lei l'avrebbe annientato, lentamente e con grande soddisfazione. Aveva ancora un po' di strada da percorrere, certo, tuttavia, che lui fosse in gamba oppure no, alla fine se lo sarebbe lasciato alle spalle, quel porco.
La sala si riempì.
Molti dei presenti non si conoscevano e andarono a sedersi in silenzio. Judith Li attese, paziente, finché non finirono il brusio e il rumore delle sedie. La tensione era palpabile. Ma lei avrebbe potuto descrivere la condizione di spirito di ogni singolo individuo soltanto rivolgendogli un'occhiata. Judith sapeva guardare dentro l'anima della gente. Aveva imparato a farlo. Si avvicinò al podio, sorrise e disse: «Rilassatevi».
Un mormorio attraversò la sala. Alcuni accavallarono le gambe e si appoggiarono rigidamente allo schienale. Solo il bel professore norvegese, con la sciarpa ricamata gettata con noncuranza intorno al collo, se ne stava seduto sulla sedia con aria quasi annoiata. Sembrava che nella sua testa stesse scorrendo un film ben diverso da quello di tutti gli altri. I suoi occhi scuri si posarono su Judith e lei cercò di valutarlo. Ma Sigur Johanson parve sottrarsi al suo esame. Judith se ne chiese il motivo. Quell'uomo aveva perso la sua casa, era stato colpito dalla catastrofe più di tutti gli altri presenti in quella sala. E allora perché non era depresso? Poteva esserci un unico motivo. Johanson non era minimamente interessato alla possibilità di scoprire qualcosa di nuovo. Aveva una sua teoria, che lo tormentava, riempiendolo di dubbi. Forse ne sapeva più di tutti… o almeno ne era convinto.
Judith Li decise che l'avrebbe tenuto d'occhio.
«So che siete sotto pressione», proseguì. «E voglio davvero ringraziarvi perché avete reso possibile questo incontro. Vorrei ringraziare in particolare gli scienziati. Sono intimamente convinta che, grazie alla vostra collaborazione, riusciremo a guardare gli avvenimenti del recente passato alla luce di una nuova speranza. Voi ci date il coraggio.»
Judith parlava senza enfasi, in tono cordiale e tranquillo, e intanto guardava direttamente ognuno di loro. Così facendo, si guadagnò un'attenzione assoluta. Soltanto Vanderbilt sembrava impegnato in tutt'altro e cioè a pulirsi i denti con uno stuzzicadenti.
«Molti di voi si saranno chiesti perché non abbiamo tenuto questo incontro al Pentagono, alla Casa Bianca o presso la sede del governo canadese. In primo luogo, volevamo offrirvi un ambiente gradevole e le attrattive dello Château Whistler sono leggendarie. Ma il suo punto di forza è la posizione. Le montagne sono sicure, le coste no. Al momento, nessuna città costiera del Canada o dell'America può essere considerata sicura per un incontro come questo.»
Fece scorrere lo sguardo sui volti dei presenti.
«Questo è un motivo. L'altro è la vicinanza alla costa della British Columbia. Abbiamo a che fare con anomalie nel comportamento e mutazioni, c'è una scarpata continentale con giacimenti di metano… In breve, là c'è tutto ciò che, al momento, richiede la nostra attenzione. Dallo Château possiamo arrivare al mare in elicottero in pochissimo tempo, portando altresì con noi una gran quantità di strumenti di ricerca, in particolare all'istituto di Nanaimo. Già da alcune settimane abbiamo costituito allo Château una base militare per osservare il comportamento dei mammiferi marini. Di fronte agli sviluppi in Europa abbiamo deciso di trasformare la base militare in un centro di crisi per tutto il mondo. E i migliori per gestire questa crisi siete voi, signore e signori.»
Fece una pausa per permettere alle sue parole d'imprimersi nella mente dei presenti. Gli individui radunati in quella sala dovevano avere piena consapevolezza della loro importanza. Se, a dispetto delle tragiche circostanze, fossero riusciti a sviluppare un certo orgoglio e la sensazione di appartenere a un'élite, sarebbe stato un bene. Per quanto sembrasse paradossale, li avrebbe aiutati a tenere la bocca chiusa.
«Il terzo motivo è che qui non saremo disturbati. Lo Château è completamente isolato dai media. Naturalmente non passa inosservato che un hotel di questo genere si riempia di colpo e che, intorno a esso, volino elicotteri militari. Ma non ci sono state comunicazioni ufficiali su ciò che stiamo facendo qui. Se ci chiedono qualcosa, parliamo di un'esercitazione, una cosa talmente vaga che può dar luogo a congetture di qualsiasi tipo, però a niente di concreto. Quindi nessuno ha ancora scritto niente.» Judith Li s'interruppe, quindi riprese: «Non si può dare in pasto all'opinione pubblica tutto quello che sta succedendo. Non possiamo permetterlo. Il panico sarebbe l'inizio della fine. Mantenere la calma significa essere capaci di agire. Permettetemi di parlare in modo schietto: in guerra, la prima vittima è sempre la verità. E noi siamo in guerra. E per vincere questa guerra anzitutto dobbiamo comprenderla. Abbiamo un dovere verso noi stessi e verso l'umanità. In concreto, ciò significa che, da questo momento in poi, non dovrete più parlare con nessuno del vostro lavoro in questa unità di crisi, nemmeno coi vostri familiari e coi vostri amici. Al termine della conferenza, ognuno di voi sottoscriverà una dichiarazione, ai cui contenuto noi diamo molta importanza. Vi sarei grata se esprimeste eventuali dubbi prima che vi sia mostrato quanto abbiamo raccolto. Naturalmente siete liberi di non firmare. Non comporterà il minimo problema. Ma chi fa questa scelta deve lasciare subito la sala e farsi riportare immediatamente a casa.»