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In nessun caso, Judith Li avrebbe permesso che le idee del presidente fossero pubblicamente ricondotte alla loro fonte reale. Se le veniva fatta una domanda, la sua risposta cominciava sempre con: «Il presidente crede che…» oppure con: «L'opinione del presidente a questo riguardo è…» I giornalisti non dovevano sapere che era lei a veicolare idee e nozioni al signore della Casa Bianca, ad allargare i suoi orizzonti intellettuali e soprattutto a fornirgli punti di vista e giudizi.

I membri della cerchia più ristretta, tuttavia, lo sapevano. Ma lei aspettava che i suoi meriti fossero riconosciuti al momento opportuno. Come col generale Norman Schwarzkopf, che lei aveva conosciuto nel 1991, durante la Guerra del Golfo: un intelligentissimo stratega con una notevole abilità tattica nelle questioni politiche, un uomo che non si lasciava intimidire da niente e da nessuno. Quando lo aveva incontrato, Judith Li aveva già alle spalle un percorso sorprendente: diploma in Scienze politiche e Storia alla Duke University, prima donna laureata a West Point in Scienze naturali, all'interno di un programma specifico per ufficiali di Marina, corsi d'insegnamento al War Naval College. Schwarzkopf l'aveva presa sotto la sua ala protettrice e si era preoccupato che fosse invitata a convegni e seminari, così da incontrare le persone giuste. Di per sé disinteressato alla politica, «Stormin' Norman» le aveva spianato la strada verso quel mondo in cui i confini tra politica ed esercito erano sfumati e le carte si rimescolavano continuamente.

Il suo potente protettore le aveva inizialmente procurato il ruolo di vice comandante delle forze di terra nell'Europa centrale. Nel giro di breve tempo, Judith Li aveva riscosso una notevole popolarità nella cerchia diplomatica. Formazione, cultura e doti naturali le erano state particolarmente utili. Il padre, un americano, proveniva da una famiglia di generali e aveva giocato un ruolo importante nella sicurezza della Casa Bianca, prima di doversi ritirare per motivi di salute. Sua madre, una cinese, era un'apprezzata violoncellista, che suonava nell'orchestra della New York City Opera. Per la loro unica figlia, entrambi nutrivano grandi speranze. Judith aveva preso lezioni di danza e di pattinaggio sul ghiaccio, nonché di pianoforte e di violoncello. Aveva accompagnato il padre nei suoi viaggi in Europa e Asia e quindi, fin da giovanissima, si era formata un'opinione precisa sulle differenze culturali. Le caratteristiche etniche e l'evoluzione storica esercitavano su di lei una passione irrefrenabile che la spingeva a porre continuamente domande a chiunque incontrasse, aiutata in ciò anche dal fatto che, già a dodici anni, parlava il mandarino — la lingua della madre -, a quindici si esprimeva correntemente in tedesco, francese, italiano e spagnolo e a diciotto aveva raggiunto un buon livello di giapponese e coreano. I suoi genitori erano stati severissimi per tutto ciò che riguardava le buone maniere, il modo di vestire e il rispetto delle regole della buona società, dimostrando invece una sorprendente tolleranza per tutto il resto. I princìpi presbiteriani del padre e la filosofia di vita della madre, forgiata dal buddhismo, convivevano in un rapporto armonico, come la loro vita.

Tuttavia la cosa più sorprendente era che, al momento del matrimonio, il padre aveva assunto il nome della moglie, cosa che aveva messo in moto una lunga e faticosa battaglia contro le autorità. Quel gesto d'amore per la donna che aveva lasciato la sua terra pur di seguirlo aveva portato alle stelle l'ammirazione di Judith per il padre, il quale, in realtà, era un uomo dalle mille contraddizioni. Sosteneva, per esempio, di essere in parte un liberale e in parte un repubblicano ultraconservatore e andava fiero di quella dicotomia. Una ragazza con un carattere meno forte, costretta alla pressione di una famiglia che le imponeva la perfezione in ogni disciplina, probabilmente sarebbe crollata. Ma Judith Li non l'aveva fatto: dopo aver saltato due classi, aveva ottenuto la licenza liceale con voti eccezionali, cominciando così a nutrire la convinzione di poter diventare ciò che voleva, fosse pure il presidente degli Stati Uniti d'America.

A metà degli anni '90, il dipartimento della Difesa le aveva offerto il posto di vice capo di stato maggiore, con delega alle operazioni e alla pianificazione; contemporaneamente era stata chiamata a occupare la cattedra di Storia a West Point. Presso il dipartimento della Difesa lei godeva ormai di una grande considerazione e il suo crescente interesse per la politica era stato notato da molti. Le mancava soltanto un rilevante successo militare. Il Pentagono riteneva indispensabile avere un'esperienza sul campo prima di dare il via libera all'ascesa ai livelli più alti, e quindi Judith Li agognava una bella crisi globale. Non aveva dovuto attendere a lungo. Nel 1999 aveva preso parte al confitto nel Kosovo come vice comandante delle operazioni e aveva scritto il suo nome nel libro degli eroi.

Finita la campagna militare, era diventata generale comandante a Fort Lewis e, dopo aver impressionato il presidente con un rapporto sulla sicurezza interna, era stata chiamata proprio nel consiglio di sicurezza nazionale. Judith Li aveva adottato una linea dura. Per molti aspetti, il suo pensiero era ancora più intransigente di quello dell'amministrazione repubblicana, ma in lei l'elemento trainante era il patriottismo. Era convinta che al mondo non esistesse un Paese migliore e più giusto degli Stati Uniti d'America e aveva argomentato questa sua affermazione in modo acuto ed esaustivo.

Improvvisamente si era ritrovata nel cuore del potere.

Judith Li, la perfezionista dal sangue freddo, conosceva la bestia in agguato dentro di lei: una calda, indomabile emotività che, a quel punto, poteva diventare tanto utile quanto dannosa, a seconda della mossa che si apprestava a compiere. Così aveva soppresso l'impulso a enfatizzare le proprie capacità militari e politiche. Era sufficiente che, in certe serate alla Casa Bianca, sostituisse l'uniforme con un abito da sera e suonasse Chopin, Brahms e Schubert agli ascoltatori rapiti, che guidasse nella danza il presidente sino a fargli credere di volteggiare come Fred Astaire, che cantasse per la sua famiglia e i vecchi amici repubblicani le canzoni dei padri fondatori… Quella parte della messinscena riguardava solo lei. Allacciava abilmente stretti rapporti personali, condivideva la passione per il baseball del segretario alla Difesa e quella del segretario di Stato per la storia europea. Si lasciava invitare sempre più spesso in forma privata e trascorreva interi fine settimana nel ranch del presidente.

Davanti al mondo era rimasta umile, tenendo per sé le opinioni personali sulle questioni politiche. Obbediva alle regole del gioco che si svolgeva tra politica ed esercito, appariva colta, affascinante e sicura di sé, sempre vestita correttamente, però mai rigida o spocchiosa. Le erano state attribuite — senza fondamento — una serie di relazioni con uomini assai influenti, ma lei ignorava elegantemente i pettegolezzi. Era impossibile farle perdere la calma. Ai giornalisti, ai deputati e ai sottoposti forniva bocconcini ben digeribili di certezze e convinzioni, era sempre organizzata e preparata al meglio, ricordava un'enorme quantità di dettagli, li richiamava come da un archivio e li riduceva in formule chiare e comprensibili.

Così, sebbene nemmeno lei sapesse cosa stava succedendo nell'oceano, anche stavolta riuscì a trasmettere al presidente un quadro esatto della situazione. Nel voluminoso dossier stilato dalla CIA mancavano solo pochi punti decisivi. Ecco perché Judith Li si trovava allo Château Whistler. E lei sapeva bene cosa significava.

Era l'ultimo, grande passo che le restava da fare.

Forse avrebbe dovuto chiamare il presidente. Così, semplicemente. A lui piaceva. Poteva raccontargli che gli scienziati e gli esperti erano riuniti, sottintendendo che avevano accettato l'invito informale degli Stati Uniti, benché nei loro Paesi avessero problemi a non finire. Poteva spiegargli che i satelliti della NOAA avevano riconosciuto alcuni tratti simili tra i rumori non identificati. Cose del genere gli piacevano, era un po' come dire: «Signore, abbiamo fatto un passo avanti». Naturalmente non si aspettava che il presidente sapesse cosa s'intendeva con termini quali bloop e upsweep, e perché la NOAA credeva di aver sciolto il mistero delle origini dello slowdown. Erano cose che andavano troppo nel dettaglio, cose inutili. Qualche parola ottimistica sul collegamento satellitare a prova d'intercettazione e il presidente sarebbe stato felice. E un presidente felice era sempre utile.

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