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Tranne uno.

Il peggiore di tutti. Esso trascinava nel panico anche la mente più illuminata. Quando si sollevava dal mare e arrivava sulla terra portava morte e distruzione. Il suo nome si doveva ai pescatori giapponesi, che in alto mare non percepivano nulla del suo orrore e poi, al loro ritorno, trovavano il villaggio distrutto e i parenti morti. Avevano trovato per quel mostro una parola che tradotta alla lettera voleva dire «onda in porto». Infatti tsu stava per «porto» e nami per «onda».

Tsunami.

La decisione di Alban di far rotta verso le acque profonde dimostrava che lui conosceva il mostro e le sue caratteristiche. L'errore più grande sarebbe stato quello di cercare l'apparente protezione del porto.

Così fece l'unica cosa giusta.

Mentre la Thorvaldson combatteva col mare grosso, la scarpata e i margini dello zoccolo continentale continuavano a scivolare nell'abisso. Si era generato un vortice che faceva sprofondare ampie superfici del mare. Le onde si allargavano dal luogo della frana, propagandosi con violenza ad anello in tutte le direzioni. Ma sopra il centro di quel cataclisma — un'area di diverse migliaia di chilometri quadrati — erano ancora così piatte da risultare indistinguibili dalle onde di tempesta. Superavano di circa un metro il livello del mare.

Ma poi raggiungevano la zona piatta dello zoccolo continentale.

A suo tempo, Alban aveva imparato che cosa rendeva diverse le onde di uno tsunami da quelle normali… In pratica tutto. Normalmente, il moto ondoso dipendeva dai venti. Quando l'irradiazione solare riscaldava l'atmosfera, il calore non si divideva equamente in tutte le zone della superficie terrestre. C'erano venti regolatori che, facendo attrito con la superficie dell'acqua, generavano onde. Gli stessi uragani sollevavano il mare al massimo a quindici metri. Le onde giganti, come le famigerate freak waves, erano eccezioni. La velocità di punta delle normali onde di tempesta era intorno ai novanta chilometri all'ora e l'effetto dei venti era limitato agli strati superficiali del mare. A una profondità di duecento metri era tutto tranquillo.

Le onde dello tsunami, invece, non venivano create in superficie, ma negli abissi. Non erano il risultato della velocità del vento, ma di una scossa sismica, e le onde generate dalla scossa si muovevano a una velocità molto superiore. E l'energia si diffondeva lungo tutta la colonna d'acqua, sino al fondale marino. In tal modo, le ondate toccavano sempre il fondo, a qualunque profondità. Era tutta la massa d'acqua a entrare in movimento.

Il miglior esempio di cosa fosse uno tsunami era stato mostrato ad Alban non con una simulazione al computer, ma in un modo molto più semplice. Qualcuno aveva riempito d'acqua un secchio di stagno e l'aveva colpito sul fondo, dall'esterno. Sulla superficie si erano formate diverse onde concentriche. I colpi si erano diffusi a tutta l'acqua contenuta nel secchio, che era stata spinta fuori sotto forma di onda.

Gli avevano detto che doveva immaginarsi quell'effetto moltiplicato per milioni di volte.

Semplice.

Lo tsunami generato dallo smottamento viaggiò all'inizio in tutte le direzioni a una velocità che toccava i settecento chilometri all'ora, con creste molto lunghe e basse. Soltanto la prima ondata trasportò un milione di tonnellate d'acqua e una corrispondente quantità d'energia. Dopo pochi minuti, raggiunse il margine della piattaforma continentale. Il fondale marino, divenuto più pianeggiante, frenò l'onda e ne rallentò il fronte, senza però ridurre l'energia trasportata. Le masse d'acqua continuarono a spingersi in avanti e, dato che la velocità era diminuita, cominciarono ad accavallarsi. Più il fondale diventava basso, più lo tsunami si alzava, mentre la lunghezza delle sue onde si restringeva drammaticamente. Sulle loro creste cavalcavano le onde della tempesta. Allorché lo tsunami raggiunse le prime piattaforme di trivellazione sullo zoccolo continentale del mare del Nord, la velocità era scesa a quattrocento chilometri all'ora, ma esso era già diventato alto quindici metri.

Quindici metri non erano un'altezza tale da preoccupare eccessivamente le piattaforme. Almeno finché si trattava di normali onde di tempesta.

Ma le ondate che si propagavano dal fondale marino fino alla superficie dell'acqua, accompagnate da una montagna d'acqua alta quindici metri, avevano l'effetto d'urto di un jumbo jet.

Gullfaks C, zoccolo continentale norvegese

Per un momento, Lars Jörensen pensò addirittura di essere troppo vecchio per trascorrere gli ultimi mesi sulla Gullfaks C. Tremava. Che cos'era successo? Tremava con tale intensità che ogni cosa sembrava tremare con lui. Non riusciva a spiegarsi il perché. Non si sentiva male. Forse era depresso, ma non malato. Cominciava così un attacco di cuore?

Poi si accorse che era la piattaforma a tremare, non lui.

La Gullfaks C tremava.

Rendersene conto fu uno shock.

Fissò la torre di perforazione e poi il mare aperto. Sotto, infuriava la tempesta, ma lui ne aveva viste di peggiori e non avevano mai fatto tremare la piattaforma. Quel tremito Jörensen lo conosceva solo dai racconti: quando si sbagliava a fare una perforazione e si creava un blowout, che spingeva gas o petrolio ad alta pressione verso l'alto, allora poteva succedere che tutta la piattaforma vibrasse violentemente. Ma sulla Gullfaks una cosa del genere era impossibile. Il petrolio veniva pompato da giacimenti semivuoti in cisterne sottomarine, e ciò non avveniva sotto la piattaforma, bensì a una certa distanza.

Nel lavoro offshore esisteva una sorta di top ten delle potenziali catastrofi. Gli scheletri d'acciaio su cui poggiava la maggior parte delle piattaforme potevano cedere. Le freak waves, le onde giganti che, di tanto in tanto, erano formate dal vento e dalle tempeste, rappresentavano uno dei peggiori incidenti ipotizzabili nel settore dell'industria petrolifera. Allo stesso modo, si temevano le collisioni coi barconi staccatisi dagli ormeggi e con le petroliere sfuggite al controllo. Tutto ciò faceva parte della hit parade degli orrori, in cima alla quale c'era la perdita di gas. Le perdite erano difficili da trovare, in genere si scoprivano solo quand'era troppo tardi ed esse erano entrate in contatto col fuoco. In tal caso, esplodeva tutta la piattaforma, com'era successo alla Piper alpha sul versante inglese. Era stata la più grande catastrofe dell'industria petrolifera, costata la vita a centosessanta persone.

Ma i maremoti erano l'incubo per antonomasia.

Jörensen lo capì. Quello era proprio un maremoto.

Poteva succedere qualsiasi cosa. Se la terra tremava, si perdeva ogni controllo. Il materiale si deformava e si strappava. C'erano fughe e incendi. Se un terremoto faceva vibrare una piattaforma, si poteva soltanto sperare che non succedesse di peggio, che il fondale marino non sprofondasse e non franasse, che le costruzioni ancorate reggessero al colpo. Ma subito dopo la scossa c'era un altro problema contro cui non c'era nulla da fare, proprio nulla.

E quel problema stava raggiungendo la piattaforma.

Jörensen lo vide avvicinarsi e comprese che non c'erano più speranze. Si girò per scendere di corsa le scale d'acciaio e fuggire dalla zona esposta ai venti.

Accadde tutto in fretta.

Inciampò e cadde. Istintivamente si aggrappò alla grata del pavimento. Esplose un rumore infernale, una serie di ruggiti e rimbombi, come se la piattaforma si stesse spezzando. Si sentirono grida, poi un boato assordante lacerò l'aria e Jörensen venne sbattuto contro il parapetto. Un dolore violento gli percorse il corpo. Era aggrappato alla grata e il mare sembrava sollevarsi. Sopra di lui, il metallo si rompeva, stridendo. Comprese con terrore che la piattaforma si stava piegando. La sua mente si annebbiò. Quando si è in preda al panico, spesso si fanno cose prive di senso, come strisciare verso l'alto per cercare di sfuggire all'acqua che si sta avvicinando. E Jörensen si trascinò sul piano inclinato che poco prima era ancora un pavimento e che adesso s'inclinava sempre più. Poi si mise a gridare.

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