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Nello stesso istante, Alban ebbe la conferma di quello che il suo istinto gli aveva suggerito: l'ingegnere pazzo e il pilota erano morti. «Dobbiamo andar via! Subito!»

Il timoniere si girò verso di lui. «E dove?»

Alban cercò di riflettere. Aveva la piena consapevolezza di quello che stava succedendo là sotto e sapeva cosa li aspettava. Correre verso un porto era escluso. Alla Thorvaldson restava una sola possibilità: dirigersi il più velocemente possibile verso le acque profonde. «Comunicare per radio», ordinò. «Norvegia, Scozia, Islanda… Tutti i residenti devono evacuare immediatamente la costa. Trasmettere in continuazione! Informiamo tutti quelli che possiamo raggiungere.»

«Che ne è di Stone e di…» iniziò il vice direttore.

Alban lo guardò. «Sono morti.» Non osava neppure immaginare la violenza dello smottamento. E quello che mostrava il sonar era sufficiente a farlo rabbrividire. Si trovavano ancora in una zona critica. Pochi chilometri all'interno dello zoccolo continentale e sarebbero affondati. Andando al largo, diretti verso il cuore della tempesta, probabilmente ne sarebbero usciti con le ossa rotte, ma si sarebbero salvati.

Alban pensò alla morfologia della scarpata. Da nord-ovest, il fondale digradava in ampie terrazze. Se avevano fortuna, la slavina si sarebbe fermata nelle zone superiori. Nel caso di un effetto Storegga, però, non si sarebbe più fermata. Tutta la scarpata continentale sarebbe scivolata negli abissi per una larghezza di centinaia di chilometri e fino a una profondità di oltre tremila metri. Le masse sarebbero penetrate sino al fondo abissale a est dell'Islanda e quindi avrebbero scosso il mar di Norvegia e il mare del Nord con violenza inaudita.

Dove dovevano andare?

Alban distolse lo sguardo dalla strumentazione.

«Rotta verso l'Islanda», disse.

Franarono milioni di tonnellate di fango e macerie.

Quando le prime propaggini della slavina raggiunsero il canale Fær Øer-Shetland, sulla scarpata continentale tra Scozia e fossa norvegese non c'erano più terrazze, ma c'era soltanto una massa libera che precipitava sempre più, devastando tutto ciò che fino a poco prima aveva forma e struttura. Una parte della slavina si diresse a ovest delle isole Fær Øer e infine si fermò contro i banchi che circondavano il bacino islandese. Un'altra parte della slavina si divise lungo il rialzo tra l'Islanda e le Fær Øer.

La maggior parte, però, avanzava nel canale Fær Øer-Shetland come su un gigantesco scivolo. Nulla poteva fermarla. Lo stesso bacino abissale che migliaia di anni prima aveva accolto lo scivolamento di Storegga, ora si riempiva con una slavina ancora più grande, che procedeva inarrestabile e creava un gigantesco risucchio.

Poi crollò il bordo dello zoccolo continentale.

Fu semplicemente strappato via per una larghezza di cinquanta chilometri. Ed era solo l'inizio.

Sveggesundet, Norvegia

Subito dopo la partenza di Johanson, Tina Lund aveva caricato i bagagli sulla jeep di Johanson e se n'era andata.

Guidava velocemente. La pioggia che stava iniziando a cadere rendeva le strade viscide e la foschia riduceva la visibilità. Probabilmente Johanson avrebbe protestato, ma Tina era dell'idea che dalle auto si dovesse sempre pretendere il massimo.

A ogni chilometro che l'avvicinava a Sveggesundet, si sentiva più leggera.

Finalmente aveva deciso. Dopo aver chiarito la faccenda con Stone, aveva chiamato Kare e gli aveva proposto di passare insieme un paio di giorni al mare. Sebbene contento, Kare era stato anche un po' sorpreso… almeno così le era sembrato. Qualcosa nella sua reazione le aveva fatto sospettare che forse Johanson aveva ragione. Doveva raddrizzare l'andamento a zig-zag delle settimane precedenti, altrimenti Kare l'avrebbe lasciata. Ebbe quasi paura che quell'istante fosse già passato e che Kare avesse in serbo parole inquietanti sul futuro del loro rapporto.

Johanson aveva distrutto una casa, certo. Ma si poteva sempre cercare di costruirne un'altra.

La jeep percorreva velocemente la strada principale di Sveggesundet, che si snodava lungo la costa. Tina sentiva il battito cardiaco accelerare. Lasciò la macchina in un parcheggio pubblico al di sopra del Fiskehuset. Di lì, una strada e un sentiero conducevano alla spiaggia, che non era di sabbia, ma di rocce e ghiaia levigata, coperta di muschio e felci. Il paesaggio intorno a Sveggesundet era piatto, ma romanticamente selvaggio, e il Fiskehuset, con la sua terrazza sul mare, offriva uno splendido panorama anche quel giorno, nonostante la pioggia e la scarsa visibilità.

Tina percorse lentamente la breve distanza che la separava dal ristorante ed entrò. Era ancora chiuso e Kare non c'era. Un'aiuto cuoca, che stava trasportando ceste di verdura, le disse che era andato in paese. Forse doveva recarsi in banca o dal barbiere, comunque non aveva detto quando sarebbe stato di ritorno.

Colpa mia, pensò Tina.

Avevano appuntamento lì. Era stata troppo veloce, arrivando con molto anticipo. Adesso non le rimaneva che sedersi nel ristorante ad aspettare. Ma le sembrava una cosa troppo stupida. Sarebbe stato del tutto fuori luogo, uscirsene con un: «Cucù, guarda un po', sono già arrivata!» O peggio ancora con un: «Ciao, Kare, dov'eri finito? È un po' che ti aspetto!»

Uscì sulla terrazza del Fiskehuset e la pioggia la colpì sul viso. Altri sarebbero rientrati immediatamente, ma Tina era insensibile al cattivo tempo. Aveva trascorso l'infanzia in campagna e amava le giornate di sole, ma anche le tempeste e la pioggia. Solo in quel momento si accorse come le raffiche di vento che nell'ultima mezz'ora avevano scosso la jeep si fossero trasformate in una vera tempesta. Non c'era più nebbia, ma in compenso le nuvole, basse nel cielo, s'inseguivano. Il mare era increspato e coperto di schiuma bianca.

C'era qualcosa di strano.

Era stata spesso lì e conosceva bene la zona. Tuttavia le sembrava che la riva fosse più ampia del solito. La ghiaia e le rocce, sebbene le onde s'infrangessero con violenza, si estendevano più del consueto. Sembrava quasi che ci fosse una bassa marea fuori programma.

Ti sbagli, pensò.

Con decisione improvvisa, prese il cellulare e compose il numero di Kare. Poteva dirgli che era già lì. Meglio così che veder naufragare la sorpresa. Quel giorno non sarebbe riuscita a sopportare un muso lungo o anche solo la minima mancanza di gioia.

Il telefono suonò quattro volte, poi rispose la segreteria.

Va bene. Il destino ha voluto diversamente, rifletté.

Si scostò dalla fronte i capelli ormai bagnati e rientrò, nella speranza di trovare in funzione la macchina del caffè.

Tsunami

Il mare era pieno di mostri.

Da tempo immemorabile, esso offriva spazio a miti, metafore e paure primordiali. I compagni di Ulisse erano caduti vittime di Scilla, un orrendo mostro a sei teste. Per intimorire la vanitosa Cassiopea, Poseidone aveva creato Ceto e, per vendetta, aveva scatenato contro Laocoonte — insospettito dal cavallo di legno lasciato sulla spiaggia di Troia — due giganteschi serpenti marini, che avevano avvolto nelle loro spire lui e i suoi figli. Alle sirene si poteva sfuggire soltanto tappandosi le orecchie con la cera. Ondine, sauri di mare, polpi giganti, Vampyroteuthis infernalis popolavano le fantasie più inquietanti. Persino la bestia della Bibbia, quella con «dieci corna e sette teste», era uscita dal mare. Ma proprio la scienza, per sua natura votata allo scetticismo, da quand'era stata ritrovata la latimeria e dimostrata l'esistenza dei calamari giganti, parlava del nocciolo di verità contenuto non solo nelle leggende, ma anche nelle notizie più inquietanti. Per millenni, l'umanità aveva temuto gli abitanti degli abissi, ma poi si era messa con entusiasmo sulle loro tracce. Per lo spirito illuminato non c'era nulla d'inviolabile, nemmeno la paura. I mostri erano diventati i migliori compagni di gioco, gli autentici eppure immaginari animali di peluche della ricerca.

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