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Eppure c'era stato un momento magico. Uomini splendenti di nero, grondanti petrolio, si erano abbracciati, mentre alle loro spalle uno zampillo usciva dal terreno sabbioso, sprizzando verso il cielo e promettendo ricchezza. Era successo davvero? Nel Gigante c'era quella scena con James Dean… Amava la scena con James Dean molto più di quella con Bruce Willis in Armageddon, sebbene quest'ultima si svolgesse su una vera piattaforma, mentre Il gigante era ambientato nel Texas. In quella scena, James Dean era felice e saltava come un pazzo, completamente ricoperto di petrolio. A guardarlo era un po' come essere seduto in grembo al nonno e ascoltarlo raccontare di quando lui era giovane e tutto era più bello. Lo si ascoltava, credendo a ogni parola. Poi, a un certo punto, non gli si credeva più.

Già, un nonno. Io sono un nonno! pensò Jörensen. Ancora pochi mesi, poi tutto sarà alle mie spalle. Finito, passato. E comunque mi andrà meglio rispetto a chi è giovane oggi. Non mi potranno più licenziare per colpa della razionalizzazione, smetterò da solo. E poi c'è ancora la pensione. C'è quasi da sentirsi in colpa a troncare prima che arrivi la fine… Ma non è più un mio problema. Ne avrò altri.

Dalla costa lontana si avvicinava un rumore. Un rimbombo ritmico, che divenne il crepitio di un elicottero.

Jörensen alzò la testa. Conosceva tutti i modelli che passavano da quelle parti. Già da lontano, e nonostante il cattivo tempo, vide un Bell 430 passare sulla Gullfaks e sparire nella foschia. Il rumore delle pale tornò a essere un rimbombo lontano e poi sparì del tutto.

Goccioline di pioggia fini come polvere ricoprivano tutta la zona con una splendente umidità. Jörensen pensò che forse era il caso di rientrare. Aveva un'ora libera, cosa che capitava raramente, e poteva guardare la televisione o leggere, oppure giocare con qualcuno a scacchi. Ma non aveva voglia di rientrare. Non quel giorno. Gli sembrava di abitare in una bara d'acciaio. Non voleva farsi seppellire là dentro. Almeno il mare appariva come al solito: grigio, increspato, un continuo su e giù.

Lontano, dietro la torre, sulla punta del braccio esterno, bruciava la fiamma del gas. Il faro dei dispersi. Ehi, ma certo! Sembrava il titolo di un film! Niente male per un vecchione che da anni sorvegliava ogni giorno il traffico di elicotteri e navi.

Forse in pensione avrebbe potuto scrivere un libro. Su un'epoca che, di lì a qualche decennio, pochissimi avrebbero ricordato. L'era delle grandi piattaforme. E il titolo sarebbe stato: Il faro dei dispersi.

Nonno, raccontaci una storia…

L'umore di Jörensen migliorò un po'. Non era una cattiva idea. Forse non era un giorno così di merda.

Kiel, Germania

Gerhard Bohrmann aveva l'impressione di sprofondare nelle sabbie mobili.

Andava continuamente da Erwin Suess e Yvonne Mirbach, che stavano elaborando nuovi scenari col computer, con risultati sempre più drammatici. Intanto cercava di raggiungere Sigur Johanson. Aveva chiamato la segreteria dell'NTNU, ma gli avevano detto che Johanson era in viaggio e che non avrebbe tenuto neppure le lezioni. No, non si sapeva neppure quando sarebbe rientrato. Era stato messo in congedo, a quanto pareva per svolgere un incarico governativo. Bohrmann poteva immaginare benissimo quale incarico fosse. Allora aveva provato a casa di Johanson. Poi ancora sul cellulare. Niente.

Alla fine, si era rivolto di nuovo a Suess.

«Deve pur esserci qualcuno che gravita nell'orbita di Johanson e che è in grado di prendere una decisione», disse Erwin.

«Tutti quelli della Statoil, ma sarebbe come se non avessimo detto niente. Questione di riservatezza… Però, se questo problema continua a essere trattato in segreto e si arriva all'effetto Storegga, allora ci troveremo di fronte a una situazione che nessuno sarà in grado di gestire.»

«Che facciamo quindi?»

«Con la Statoil non otterremo nulla.»

«Va bene.» Suess si stropicciò gli occhi. «Hai ragione. Allora ci rivolgeremo al ministero della Ricerca Scientifica e a quello dell'Ambiente.»

«A Oslo?»

«E a Berlino. Ma anche a Copenhagen, ad Amsterdam. Ah, sì, e a Londra. Ne ho dimenticata qualcuna?»

«Reykjavik.» Bohrmann sospirò. «Santo cielo. D'accordo, facciamo così.»

Suess guardò fuori dalla finestra del suo ufficio. Da lì si vedevano il fiordo di Kiel, la zona con le imponenti gru dove si caricavano le navi, gli uffici commerciali e i silos. Un cacciatorpediniere della Marina galleggiava come sospeso tra il grigio dell'acqua e del cielo.

«Cosa dicono le simulazioni su Kiel?» chiese Bohrmann. Strano che non ci avesse ancora pensato. Erano così vicino all'acqua…

«Potrebbe andare bene.»

«È pur sempre una consolazione.»

«Cerca comunque di parlare con Johanson.»

Bohrmann fece un cenno di assenso e uscì.

Deep Rover, scarpata continentale norvegese

Benché Eddie avesse acceso i sei riflettori esterni, la visuale rimaneva molto limitata. I quattro proiettori alogeni al quarzo da centocinquanta watt e le due luci da quattrocento watt HMI illuminavano debolmente una zona di circa venticinque metri di raggio. Non si riuscivano a distinguere strutture solide. Quasi accecato dopo il lungo viaggio nel buio, Stone socchiuse le palpebre. Il Deep Rover s'inabissava tra cortine di perle scintillanti.

«Che cosa sono?» chiese, chinandosi in avanti. «Dov'è il fondale marino?» Poi capì che cosa stava risalendo verso di loro. Erano bolle. Salivano a vite, alcune goffamente e sussultando, altre — più piccole — come se fossero legate a un filo.

Il sonar continuava a emettere i suoi caratteristici sibili e schiocchi. Con le sopracciglia aggrottate, Eddie studiava i segnali luminosi della console: stato delle batterie, temperatura esterna e interna, riserve di ossigeno, pressione della cabina e tutti gli altri dati ricevuti dai sensori esterni.

«Tanti auguri», ringhiò. «È metano.»

La cortina di perle divenne più fitta. Eddie sganciò i due pesi d'acciaio fissati allo scafo e spinse aria nei serbatoi per stabilizzare il batiscafo. Quelle manovre avevano lo scopo di farli restare sospesi, invece loro continuavano a sprofondare.

«Non riusciamo a portare su il culo. Non posso crederci!»

Nella luce dei proiettori apparve il fondale. Si avvicinavano troppo velocemente. Stone riuscì a vedere fessure e buchi, poi furono di nuovo avvolti dalle bolle. Eddie imprecò e fece uscire altra acqua dai serbatoi.

«Cos'è successo?» chiese Stone. «Abbiamo problemi con la spinta?»

«Credo sia il gas. Siamo in mezzo a un blowout.»

«Dannazione.»

«Calma.»

Il pilota accese l'elica. Il batiscafo cominciò a muoversi in avanti attraverso le collane di bolle. Per un momento, Stone si sentì come su un ascensore che si ferma dolcemente. Cercò con lo sguardo il batimetro. Il Deep Rover sprofondava più lentamente, ma la velocità con cui si avvicinava al fondale era ancora troppo elevata. Tra poco si sarebbero schiantati.

Stone si morse le labbra e lasciò che Eddie facesse il proprio lavoro. In una situazione del genere non c'era niente di peggio che distrarre il pilota con le chiacchiere. Vide le cortine di bolle diventare più spesse e il fondale che s'intravedeva in mezzo al blowout inclinarsi lentamente. Il pattino destro sparì in un violento gorgoglio e il batiscafo si piegò di lato.

Trattenne il respiro.

Erano fuori.

Fino a un attimo prima, il mare ribolliva; adesso invece avevano davanti agli occhi il fondale tranquillo. Il batiscafo riprese a salire. Senza particolare fretta, Eddie manovrò la valvola e fece entrare acqua marina nei serbatoi finché il Deep Rover non si fu stabilizzato e scese dolcemente lungo la scarpata.

«Tutto sotto controllo», disse.

Ora procedevano a una velocità massima di due nodi, cioè di 3,7 chilometri all'ora. Facendo jogging si andava più veloci, ma negli abissi non ci si poteva muovere troppo in fretta. Inoltre si trovavano nella zona in cui Stone aveva installato la stazione. Non poteva essere lontana.

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