Литмир - Электронная Библиотека

Rifletté. Non gli venne nulla.

Decise che non era necessario inventarsi qualcosa. Le riflessioni di Bohrmann sui viaggi in batiscafo non suonavano male. Stone si schiarì la voce. «Naturalmente potevamo mandare un robot», disse infine. «Ma non sarebbe stata la stessa cosa. Ho visto migliaia di riprese video fatte dai robot, tutte molto impressionanti.» Come va avanti? Ah, sì. «Ma essere di persona lì dentro, essere di persona là sotto, quella tridimensionalità… Non pensavo fosse così. Non c'è paragone. E… e ci dà la migliore… ehm, la migliore visuale… per vedere che cos'è successo… ehm… e che cosa possiamo fare.»

L'ultima frase era stata tremenda.

«Amen», disse sottovoce Alban sullo sfondo.

Stone si girò, scivolò sotto il batiscafo e s'infilò nel portello. Il pilota gli tese la mano, ma Stone ignorò l'aiuto. Si sollevò e prese posto. Era un po' come essere in un elicottero oppure in una attrazione high-tech di Disneyland. La cosa straordinaria era la sensazione di essere ancora all'esterno, benché i rumori dal ponte non gli arrivassero più. La sfera di vetro acrilico spessa alcuni centimetri li schermava.

«Devo spiegarle ancora qualcosa?» chiese Eddie con gentilezza.

«No.»

Eddie gli aveva già spiegato tutto poco prima. Lo aveva fatto in maniera molto approfondita e coi suoi tipici modi tranquilli. Stone gettò uno sguardo alla piccola console computerizzata davanti a loro. La sua mano destra scivolò sui comandi di guida a fianco del sedile. All'esterno, il fotografo scattava in continuazione e il cameraman riprendeva.

«Bene», disse Eddie. «Andiamo a divertirci.»

Uno strattone scosse il batiscafo. Improvvisamente oscillarono sopra il ponte, poi ci passarono lentamente sopra. Ora sotto di loro si vedeva la superficie agitata dell'acqua. Per un momento rimasero là, appesi, immobili a guardare la poppa della Thorvaldson. Alban sollevò le mani coi pollici levati e Stone gli fece un rapido cenno col capo. Nelle prossime ore avrebbero comunicato solo col telefono sottomarino. Non c'era un cavo a fibre ottiche che legava il batiscafo alla nave madre, non c'era nulla, se non le onde sonore. Non appena il braccio della gru li avesse sganciati, sarebbero rimasti soli.

Lo stomaco di Stone cominciò a contrarsi.

Ci fu un altro strattone. Quando si sciolsero dalla gomena, sopra di loro risuonò un clonc. Il batiscafo entrò in mare, fu sollevato da un'onda, poi Eddie aprì il serbatoio e l'acqua entrò, gorgogliando. L'oceano si chiuse sopra la sfera. Il Deep Rover affondò come una pietra, circa trenta metri al minuto. Stone teneva lo sguardo fisso all'esterno. Sullo scafo erano spente tutte le luci, eccetto le piccole luci di posizione. Conveniva risparmiare energia, perché laggiù sarebbe servita.

Solo pochi pesci si facevano vedere. A cento metri di profondità, il blu cupo del mare si scurì e i due si ritrovarono immersi nelle tenebre vellutate.

All'esterno brillò qualcosa di simile a un lampeggiante dei pompieri. Prima una volta, poi tutt'intorno a loro.

«Meduse luminose», spiegò Eddie. «Belle, vero?»

Stone era affascinato. Aveva già partecipato a diverse immersioni col batiscafo, ma mai con un Deep Rover. Effettivamente sembrava che non ci fosse nulla tra loro e il mare. Le luccicanti luci rosse della console e degli strumenti di servizio sembravano volersi unire ai banchi di animaletti fluorescenti che nuotavano tutt'intorno. Il pensiero che la sua stazione si trovasse in quell'universo sconosciuto sembrò improvvisamente a Stone tanto assurdo che per poco lui non scoppiò a ridere. Io sono l'ideatore del progetto, pensò. Che sia stato seduto troppo a lungo dietro una scrivania? Così a lungo da non riuscire più a cogliere la realtà?

Allungò le gambe fin dov'era possibile. Mentre scendevano, i due scambiarono solo qualche parola. Con l'aumentare della profondità cresceva anche il freddo, ma non era insopportabile. Rispetto a batiscafi come l'Alvin MIR o lo Shinkai, che potevano raggiungere i seimila metri, il Deep Rover disponeva di un sofisticato sistema di regolazione interna della temperatura. Prudentemente, Stone aveva indossato dei calzini — le scarpe non erano permesse all'interno dei batiscafi, per evitare che gli strumenti fossero danneggiati da un calcio involontario — e un caldo pullover di lana. Nonostante il freddo, si stava bene. Eddie, vicino a lui, era tranquillo e concentrato. Di tanto in tanto, dall'altoparlante, usciva una voce gracchiante: erano chiamate di controllo dei tecnici della Thorvaldson. Le parole erano comprensibili, ma distorte perché sott'acqua le onde sonore si mischiavano con mille altri rumori.

Scendevano e scendevano.

Dopo venticinque minuti, Eddie mise in funzione il sonar. Leggeri fischi e scricchiolii entrarono nella sfera e si sovrapposero al dolce ronzio degli strumenti elettrici.

Si avvicinavano al fondale.

«Preparare popcorn e Coca-Cola», scherzò Eddie. «Inizia lo spettacolo.»

Poi accese i proiettori esterni.

Gullfaks C, zoccolo continentale norvegese

Lars Jörensen era sulla piattaforma superiore del vano con la scala d'acciaio che portava dall'eliporto alla zona residenziale e guardava la torre di perforazione. Si era appoggiato al parapetto con le braccia incrociate e le punte dei suoi baffi bianchi vibravano al vento. Nelle giornate limpide sembrava di poter toccare la torre, ma quel giorno era difficile vederla. Col passare delle ore, con l'infittirsi della foschia che precedeva la tempesta in arrivo, diventava sempre più irreale, come se volesse impallidire completamente per diventare un puro ricordo.

Dall'ultima visita di Tina, Jörensen era diventato malinconico. Continuava a chiedersi cosa volesse costruire la Statoil sulla scarpata continentale. Senza dubbio stavano progettando una stazione completamente automatizzata e magari collegata a una nave di produzione. Tina era convinta di averlo abbindolato con le sue risposte, ma lui non era stupido. Aveva capito quello che stavano facendo; intendevano mettere da parte gli uomini e sostituirli con le macchine. In fondo aveva senso. Una macchina non si preoccupava della buona cucina come faceva lui, non dormiva, lavorava in condizioni pericolosissime… e tutto ciò senza chiedere lo stipendio. Inoltre non si lamentava e, dopo qualche anno, poteva essere buttata nella spazzatura. D'altra parte, Jörensen si chiedeva come un robot potesse sostituire occhi e orecchie e prendere decisioni intuitive. Di certo, senza uomini, non c'erano errori umani. Ma se le macchine sbagliavano e non c'erano uomini nelle vicinanze, allora succedeva come in quei film di fantascienza che lui spesso guardava di notte, quando il mare sbatteva contro i piloni. L'uomo avrebbe perso il controllo. E le macchine non si curavano della vita e dell'ambiente, né avevano la minima comprensione per gli interessi degli uomini che le costruivano e che intanto si autoeliminavano, spinti da un'idea di razionalizzazione.

La luce scemava. Il cielo divenne ancora più grigio e iniziò a piovigginare.

Che giorno di merda, pensò Jörensen.

Non bastava che da un po' di tempo il mare puzzasse come se l'acqua fosse piena di prodotti chimici. Ora ci si metteva anche il tempo a far toccare il fondo della tristezza.

Lavoriamo su delle rovine, rifletté. Una città fantasma in mare, piena di zombie che vengono esorcizzati l'uno dopo l'altro. Quando il giacimento sarà esaurito, resterà una carcassa inutile. I lavoratori saranno mandati a spasso, le piattaforme verranno liquidate, e il futuro lo vedremo in televisione. Riprese video di un mondo in cui non potremo entrare quando ce ne sarà bisogno.

Jörensen sospirò.

Quelle riflessioni potevano aiutare qualcuno? Erano espresse con troppa semplicità? Erano troppo di parte, troppo grette, troppo presuntuose? L'automobile aveva segnato la fine delle carrozze pubbliche. Ma c'era forse qualcuno che le voleva ancora, le carrozze? Probabilmente su tutta quella faccenda avevano ragione gli altri e lui era solo un vecchio che odiava l'idea di andare in pensione.

101
{"b":"119418","o":1}