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Il pilota sorrise. «Avremmo dovuto metterlo in preventivo, vero?»

«Non un blowout di questa violenza.»

«No? Il mare puzza come una fogna, quindi il gas da qualche parte deve uscire. Già, ma per lei non aveva importanza. Lei voleva assolutamente immergersi.»

Stone non si degnò di rispondere. Si concentrò, cercando i segni degli idrati, ma al momento non ne vedeva. L'unica cosa visibile erano i vermi. Sul fondale riposava un pesce piatto, simile a una sogliola. Al loro avvicinarsi, si sollevò pigramente, fece vorticare il fango e nuotò fuori dalla zona illuminata.

Era irreale stare là, mentre sulla sfera di vetro acrilico l'acqua esercitava una pressione di cento chili per centimetro quadrato. Era tutto artificiale: la zona illuminata del plateau abissale con le sue ombre cangianti prodotte dal passaggio del Deep Rover, il nero in ogni direzione oltre la luce diffusa, la pressione interna mantenuta costante dalle apparecchiature, l'aria che usciva regolarmente dalle bombole, e il biossido di carbonio della respirazione che veniva eliminato chimicamente.

Nulla invitava a trattenersi in quella situazione.

Stone provò a parlare, ma la lingua gli si appiccicò al palato. Ricordò che non beveva da ore. Per ogni evenienza, a bordo c'erano delle Human Range Extender, bottiglie speciali cui far ricorso se proprio non si poteva aspettare, benché, prima di salire su un batiscafo, si consigliava caldamente di vuotare la vescica. Dal primo mattino, lui e Eddie avevano mangiato solo sandwich con burro di noccioline e durissime barrette di cioccolato e crusca. Alimenti per l'immersione. Alimenti nutrienti e secchi come la sabbia del Sahara.

Cercò di rilassarsi. Eddie fece un breve rapporto alla Thorvaldson. Di tanto in tanto vedevano molluschi e stelle marine. Con un movimento della mano, il pilota indicò l'esterno. «Sorprendente, vero? Siamo a più di novecento metri e c'è buio pesto. Tuttavia questo luogo è chiamato zona della luce residua.»

«Non ci sono zone in cui l'acqua è così limpida che la luce arriva fino a mille metri?» chiese Stone.

«Certo. Ma nessun occhio umano è in grado di percepirla. Oltre i cento, centocinquanta metri per noi è buio pesto. È mai stato oltre i mille metri?»

«No, e lei?»

«Qualche volta.» Eddie scrollò le spalle. «È più o meno dannatamente buio come qui. Preferisco stare dove c'è la luce.»

«Come? Nessuna ambizione di raggiungere le grandi profondità?»

«A quale scopo? Picard è riuscito ad arrivare a 10.740 metri. Io non ne ho voglia. È stata un'impresa scientifica di prima classe, ma non c'era quasi niente da vedere.»

«Come fa a saperlo?»

«Non lo so, ma posso immaginarlo. Voglio dire, anche se la bentosfera è più divertente del batiscafo, è comunque un mortorio.»

«Scusi, ma… Picard non è arrivato a 11.340 metri di profondità?» chiese Stone.

«Oh, già.» Eddie sorrise. «Lo so, è scritto in tutti i libri di scuola. Un errore. Dipende dallo strumento di misurazione. Lo avevano calibrato in Svizzera, nell'acqua dolce. Capisce? L'acqua dolce ha una densità diversa. Per questo hanno sbagliato le misurazioni durante l'unica immersione con equipaggio nel punto più basso della superficie terrestre. Avevano…»

«Ehi!»

Davanti a loro, il cono di luce sparì nell'ombra. Nell'avvicinarsi, si resero conto che il fondale cadeva a strapiombo. La luce si perdeva nel precipizio.

«Si fermi.»

Le dita di Eddie volarono su tasti e bottoni. Sviluppò una controspinta e il Deep Rover si fermò. Poi cominciò progressivamente a girarsi. «Una corrente piuttosto forte», mormorò il pilota. Il batiscafo continuò lentamente a ruotare finché i proiettori non illuminarono il bordo del precipizio. «Sembra quasi che sia crollato da poco… Una cosa molto fresca.»

Gli occhi di Stone si muovevano nervosamente. «Che dice il sonar?»

«Si scende di almeno quaranta metri. A destra e a sinistra non sono in grado di dirlo.»

«Questo vuol dire che il plateau…»

«Qui non c'è più. È crollato.»

Stone si mordicchiò il labbro inferiore. Dovevano essere nelle immediate vicinanze della stazione. Ma un anno prima là non c'era nessun precipizio. Probabilmente non c'era neppure qualche giorno prima. «Scendiamo ancora», decise. «Guardiamo un po' dove si arriva.»

Il Deep Rover si mise in moto e scese lungo la parete dello strapiombo. Dopo circa due minuti, i proiettori illuminarono di nuovo il fondo. Sembrava un campo di macerie.

«Dovremmo risalire di qualche metro», disse Eddie. «Qui è troppo frastagliato, potremmo sbattere da qualche parte.»

«Sì, un attimo. Maledizione, davanti a noi! Guardi.»

Nel campo visivo era comparsa una grossa tubatura pesantemente danneggiata. Giaceva di traverso, sopra grandi frammenti di pietrisco, e spariva oltre il cono di luce. Dalla tubatura uscivano dense e scure chiazze di petrolio che salivano verticalmente.

«È un oleodotto», gridò Stone, sconvolto. «Mio Dio.»

«Era un oleodotto», precisò Eddie.

«Seguiamone il corso.»

Stone rabbrividì. Sapeva dove andava quell'oleodotto, sapeva da dove arrivava. Erano nella zona della stazione.

Ma non c'era più niente.

D'un tratto, davanti a loro, comparve una parete frastagliata ed Eddie la evitò per un pelo, riuscendo ad alzare il batiscafo. La seguirono per un pezzo — sembrava non finire mai — e alla fine passarono appena sopra il bordo. In quell'istante, Stone si rese conto che quella non era una parete, bensì un gigantesco pezzo di fondale marino che si era sollevato. Dalla parte opposta scendeva ancora verticalmente. Nella luce, vorticavano particelle di sedimenti che rendevano più difficile vedere i dintorni. Poi le luci illuminarono un'altra corrente di bolle che risalivano velocemente. Schizzavano fuori da una fossa coi bordi a spigolo.

«Santo cielo», sussurrò Stone. «Cos'è successo qui?»

Eddie non rispose. Virò in modo da evitare le bolle. La visuale peggiorò. Per un po', persero di vista l'oleodotto, poi esso ricomparve nel fascio di luce dei proiettori. Proseguiva verso il basso.

«Dannata corrente», eslcamò Eddie. «Siamo trascinati nel blow-out.»

Il Deep Rover cominciò a sprofondare a vite.

«Seguiamo l'oleodotto», ordinò Stone.

«È una follia. Dovremmo risalire.»

«La stazione è qui», dichiarò Stone. «Dovremmo vederla da un momento all'altro.»

«Non vedremo niente. Qui è tutto distrutto.»

Stone non replicò. Davanti a loro, l'oleodotto era piegato verso l'alto, come se un pugno gigantesco l'avesse colpito, e terminava con un troncone strappato. L'acciaio frastagliato formava bizzarre sculture.

«Vuole andare ancora avanti?»

Stone annuì. Eddie manovrò fino ad arrivare proprio sopra il tubo. Rimasero per un momento sospesi sopra l'apertura seghettata, simile a una bocca gigantesca. Poi il batiscafo superò l'oleodotto.

«Qui si precipita», disse Eddie.

Intorno a loro riapparvero le perle.

Stone strinse i pugni. Si rese conto che Alban aveva visto giusto. Avrebbero dovuto mandare il robot. Ma ormai rinunciare gli appariva assurdo. Doveva sapere! Si sarebbe presentato a Skaugen solo con un rapporto dettagliato. Stavolta non si sarebbe fatto liquidare.

«Avanti, Eddie.»

«Lei è pazzo.»

Dietro il tubo strappato, il campo di macerie scendeva a strapiombo e la pioggia di sedimenti aumentava. Per la prima volta, anche Eddie mostrava una certo nervosismo. In ogni momento potevano incontrare nuovi ostacoli.

Poi videro la stazione.

In realtà scorsero soltanto dei sostegni trasversali, ma Stone comprese subito che il prototipo Kongsberg non esisteva più. Giaceva sotto le macerie del plateau crollato, cinquanta metri più in basso rispetto alla posizione originale.

Osservò con attenzione. Dai puntelli metallici si staccava qualcosa che saliva verso di loro.

Bolle.

No, più che semplici bolle. A Stone vennero in mente i colossali vortici di gas che aveva visto a bordo della Sonne durante il blowout, quando la benna con la telecamera era sprofondata.

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