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Per arrivare a terra impiegai, credo, fra le due e le tre ore. Ma poteva anche essere la metà o il doppio. La tempesta aveva esaurito i lampi e sarebbe stato quasi impossibile trovare appigli nel buio quasi totale, ma sopra la fitta volta della giungla comparve un bizzarro, fioco bagliore rossastro, quasi invisibile, che consentì ai miei occhi di adattarsi quanto bastava a trovare qui una fune, là una liana, più in là un solido ramo.

Sorgeva il sole? Poco probabile. Il bagliore pareva troppo diffuso, troppo debole, quasi chimico.

Calcolai che mi ero trovato a circa venticinque metri dal suolo. I grossi rami continuavano fino a terra, ma le taglienti fronde di palma diminuivano, mentre scendevo. Mi riposai nella forcella di due rami per riprendermi dal dolore e dal giramento di testa; quando continuai la discesa, scoprii sotto di me acqua montante. Ritrassi in fretta la gamba sinistra. Il bagliore rossastro era appena sufficiente a mostrare acqua da tutte le parti, torrenti d’acqua che scorrevano fra i tronchi a spirale delle palme, mulinelli d’acqua nerastra che si frangevano come un rapinoso fiume di petrolio.

«Oh merda» sospirai. Per quella notte non sarei andato oltre. Accarezzai la vaga idea di costruire una zattera. Mi trovavo su un pianeta diverso, perciò dovevano esserci due teleporter, uno a monte e un altro a valle. Fin lì, in qualche modo, c’ero arrivato. E già una volta avevo costruito una zattera.

"Sì, quando stavi bene, a pancia piena, con due gambe sane e gli attrezzi, una scure e una torcia laser per esempio. Ora non hai neppure tutt’e due le gambe."

"Piantala, per favore. Piantala!"

Chiusi gli occhi e cercai di prendere sonno. Ora avevo i brividi per la febbre. Non ci badai e cercai di pensare alla storia che avrei raccontato a Aenea quando ci saremmo rivisti.

"In realtà non sei affatto convinto che la rivedrai, vero?"

«Chiudi la maledetta boccaccia!» La mia voce si perdette nel rumore della pioggia sul fogliame della giungla e nel furioso turbinio d’acqua mezzo metro più in basso. Capii che sarei dovuto risalire di un paio di metri sui rami da cui ero appena sceso con tanta fatica e sofferenza. Non era da escludere che il livello dell’acqua salisse. Sarebbe stata una vera ironia: faticare tanto, solo per farsi spazzare via più facilmente. Meglio abbondare e risalire di tre o quattro metri. Avrei cominciato fra un minuto. Dovevo solo riprendere fiato e aspettare che le ondate di dolore si calmassero un poco. Al massimo fra due minuti.

Mi svegliai in una luce che pareva pappetta annacquata. Ero disteso di traverso su vari rami incurvati, a solo qualche centimetro da una distesa d’acqua agitata e grigia che si muoveva fra i tronchi a spirale sotto la chiara spinta di una corrente. C’era ancora una penombra da crepuscolo inoltrato. Per quel che potevo saperne, forse avevo dormito tutto il giorno ed ero pronto a iniziare un’altra notte infinita. Pioveva ancora, ma poco più di una pioggerellina. La temperatura era tropicale, anche se per la febbre non potevo essere buon giudice, e l’umidità era altissima.

Avevo dolori dappertutto. Non mi era facile separare il sordo dolore alla gamba rotta dal dolore alla testa, alla schiena, alle viscere. Ogni volta che giravo la testa, mi pareva di avere nel cranio una palla di mercurio che per un bel pezzo continuava a cambiare pesantemente posizione. Le vertigini mi diedero di nuovo la nausea, ma non avevo più niente da vomitare. Rimasi aggrappato nell’intrico di rami e contemplai le glorie dell’avventura.

"La prossima volta che ti serve una commissione, ragazzina, manda A. Bettik."

La luce non svanì, ma neppure divenne più vivida. Cambiai posizione ed esaminai l’acqua che scorreva nei pressi: grigia, increspata da mulinelli, piena di detriti, fronde di palma, vegetazione morta. In alto non vidi segno del kayak e della paravela. Ormai i pezzi di fibra di vetro e di stoffa caduti giù nella lunga notte erano stati spazzati via.

Pareva un allagamento, come quando le precipitazioni nelle paludi sopra la baia Toschahi, su Hyperion, depositavano il limo per un altro anno. Una inondazione temporanea. Ma capii che quella foresta inondata, quell’infinito acquitrino di umida giungla, poteva benissimo essere una condizione permanente, lì. Dovunque "lì" fosse.

Studiai l’acqua: opaca, torbida come latte grigio. Poteva essere profonda tanto alcuni centimetri quanto parecchi metri. Gli alberi sommersi non fornivano alcun indizio. La corrente era veloce, ma non così veloce da portarmi via, se avessi mantenuto la presa sui rami che pendevano, bassi, sulla torbida distesa d’acqua. Con un po’ di fortuna, senza gli equivalenti locali delle cisti di fango o degli acari dracula o delle aguglie piranha che pullulavano nella paludi di Hyperion, sarei riuscito ad andare a guado verso… qualche posto.

"Per guadare occorrono due gambe, Raul, ragazzo mio. Mi sa che ti toccherà saltellare nel fango su un piede solo."

E va bene, saltellare nel fango, allora. Mi afferrai con tutt’e due le mani al ramo e calai nella corrente la gamba sinistra, quella buona, tenendo la destra appoggiata al largo ramo dove ero disteso. La manovra mi causò nuove fitte di dolore, ma continuai ad abbassare il piede fin dentro l’acqua fangosa, poi vi infilai la caviglia e il polpaccio, poi il ginocchio, poi cambiai posizione per scoprire se potevo reggermi in piedi… e tesi i muscoli delle braccia, perché la gamba ferita era scivolata dal ramo, causandomi un’ondata di sofferenza che mi costrinse ad ansimare.

L’acqua era profonda meno di un metro e mezzo. Riuscivo a stare dritto sulla gamba buona: l’acqua mi arrivava alla cintola e mi schizzava il petto. Era tiepida e pareva lenire la sofferenza della gamba rotta.

"Tutti quei graziosi e pimpanti microbi in questo brodo tiepido, molti di loro mutati dai giorni delle navi seminatrici. Già si leccano le ganasce, Raul, vecchio mio."

«Sta’ zitto!» dissi fiaccamente, guardandomi intorno. Avevo l’occhio sinistro tumefatto e incrostato di sangue rappreso, ma riuscivo a utilizzarlo. La testa mi doleva.

Innumerevoli tronchi d’albero che si alzavano dall’acqua grigia fino alla grigia pioggerella su tutti i lati, fronde gocciolanti e rami di un grigio verdastro così scuro da parere quasi nero. Alla mia sinistra il panorama pareva un pochino più vivido. E in quella direzione il fango pareva un po’ più solido sotto i piedi.

Cominciai a muovermi da quella parte, spostando avanti il piede sinistro e cambiando presa di ramo in ramo, a volte chinandomi sotto fronde pendenti, a volte deviando di lato con un movimento da torero per consentire il passaggio di rami secchi o di altri detriti portati dalla corrente. Il cammino verso la zona più luminosa richiese varie ore. Ma non avevo niente di meglio da fare.

La giungla allagata terminava in un fiume. Appeso all’ultimo ramo, sentii la corrente che cercava di tirarmi via la gamba buona e fissai l’infinita distesa d’acqua grigia. Non scorgevo la riva opposta, non perché la distesa fosse senza limiti, visto che le correnti e i mulinelli si spostavano da destra a sinistra e rivelavano che si trattava di un fiume e non di un lago o di un oceano, ma perché la nebbia o bassa nuvolaglia intorbidiva l’aria fin quasi alla superficie dell’acqua e nascondeva qualsiasi cosa distasse più di un centinaio di metri. Acqua grigia, gocciolanti alberi grigioverdastri, nuvole grigio scuro. La luce pareva diminuire. La notte era in arrivo.

Con la gamba in quello stato non potevo proseguire oltre, avevo fatto il massimo. La febbre infuriava. Malgrado la temperatura da giungla, battevo i denti e controllavo a malapena il tremito delle mani. In qualche momento della faticosa avanzata nella giungla coperta d’acqua avevo aggravato la frattura a un punto tale che per il male avevo voglia di urlare. No, lo ammetto, urlavo davvero! Piano, dapprima; ma con il passare delle ore e l’intensificarsi della sofferenza e il peggiorare della situazione, urlavo brani di marcette della Guardia nazionale, poi limericks sconci imparati quando lavoravo sulle chiatte del fiume Kans, infine semplici grida di dolore.

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