«È giunta una navetta corriere, Santità.»
«Da quale fronte?»
«Non proviene dalla Flotta, Santità» dice il cardinale. Guarda, accigliato, la copia a stampa del messaggio.
«Da dove, allora?» Tendo con impazienza la mano. Il messaggio è scritto su pergamena sottile.
Vengo su Pacem, al Vaticano.
Aenea.
Guardo il segretario di Stato. «Puoi fermare la Flotta, Simon Augustino?»
Le sue guance hanno come un tremolio. «No, Santità. Le navi hanno fatto il balzo da più di ventiquattro ore. Dovrebbero avere quasi terminato il programma di risurrezione accelerata e fra qualche minuto dovrebbero iniziare l’attacco. Non possiamo attrezzare una navetta automatica che arrivi in tempo per richiamarle.»
Mi accorgo che mi trema la mano. Restituisco il messaggio al cardinale Lourdusamy. «Convoca Marusyn e gli altri comandanti della Flotta» dico. «Ordina che riportino nel sistema di Pacem tutte le navi da guerra che ancora ci restano. Immediatamente.»
«Ma Santità» dice Lourdusamy, in tono deciso «al momento sono in corso molte importanti missioni di task force…»
«Immediatamente!» ordino, brusco.
Lourdusamy china la testa. «Immediatamente, Santità.»
Mentre mi giro, sento male al petto e respiro con difficoltà, come se Dio mi avvertisse che c’è poco tempo.
«Aenea! Il papa…»
«Calma, caro. Sono qui.»
«Ero con il papa… Lenar Hoyt… ma lui non è morto, no?»
«Impari anche il linguaggio dei vivi, Raul. È sorprendente che il tuo primo contatto con i ricordi di un’altra persona ancora in vita riguardi proprio lui. Penso…»
«Non c’è tempo, Aenea! Non c’è tempo. Il suo cardinale, Lourdusamy, gli ha portato il tuo messaggio. Il papa voleva richiamare la Flotta, ma Lourdusamy ha detto che era troppo tardi: le navi hanno fatto il balzo da ventiquattro ore e attaccheranno da un momento all’altro. Potrebbero attaccare qui, Aenea. Forse si tratta della flotta che si radunava nel sistema di Lacaille 9352…»
«No!» Il grido di Aenea mi strappa alla cacofonia di immagini e di voci, ricordi e sovrapposizione di sensi; non la elimina completamente, ma la fa decrescere in qualcosa di non dissimile a musica ad alto volume in una stanza adiacente.
Aenea ha fatto uscire dallo scaffale armadietto un apparecchio comlog e chiama nello stesso tempo la nostra nave e Navson Hamnim.
Cerco di concentrarmi sulla mia amica e su ciò che accade; intanto mi vesto, ma come una persona che emerga da un vivido sogno: il mormorio di voci e di ricordi altrui è ancora con me.
Il padre capitano Federico de Soya è inginocchiato in preghiera nella sua capsula privata sulla nave-albero Yggdrasill. Non pensa più a se stesso come padre capitano, ma semplicemente come padre, e non ne è neppure tanto sicuro, mentre prega, prega come ha fatto per ore stanotte e per molte altre ore nei giorni e nelle notti da quando la comunione col sangue di Aenea gli ha rimosso dal petto il crucimorfo.
Padre de Soya prega per un perdono di cui, lo sa al di là di ogni dubbio, è immeritevole. Implora il perdono per i suoi anni da capitano nella Flotta della Pax, per le sue molte battaglie, per le vite che ha tolto, per le magnifiche opere dell’uomo e di Dio che ha distrutto. Padre Federico de Soya sta in ginocchio nel silenzio e nella bassa gravità della sua capsula personale, e chiede al suo Signore e Salvatore, il Dio di misericordia nel quale ha imparato a credere e del quale ora dubita, di perdonarlo, non per se stesso, ma perché i suoi pensieri e le sue azioni nei mesi e negli anni a venire, o anche ore, se la sua vita sarà così breve, possano meglio servire il suo Signore.
Mi ritraggo da questo contatto, con l’improvvisa ripugnanza di chi si accorge di diventare a poco a poco un guardone. Capisco subito che Aenea, se ha conosciuto per anni, per tutta la vita, il "linguaggio dei vivi", ha speso di sicuro più energia nel rifiutarlo, nell’evitare quelle non richieste intrusioni nella vita di altre persone, che nel padroneggiarlo.
Vedo che Aenea ha fatto comparire un’apertura a diaframma nella parete della capsula e ha portato il comlog nel piccolo balcone di sostanza organica. Librato a mezz’aria, varco l’apertura, raggiungo Aenea e scendo lentamente sul pavimento, sotto la lieve attrazione di un decimo di gravità generata dal campo di contenimento. Varie facce galleggiano nel diskey del comlog — Het Masteen, Ket Rosteen, Navson Hamnim — ma tutte non guardano la videocamera, nemmeno Aenea.
Impiego un secondo per girare gli occhi e guardare ciò che guarda lei.
Al di là di magnifici rosoni di fiamma rossa e sanguigna, scie ardenti tagliano l’Albero Stella. Per un attimo penso che siano dovute al girarsi delle foglie al sorgere del sole lungo la curva interna della biosfera, che calamari e angeli e comete d’irrigazione riflettano la luce come abbiamo fatto noi alcune ore prima, mentre correvamo sulla matrice dell’eliosfera. Poi capisco.
Navi della Pax penetrano nell’Albero Stella in centinaia di punti, code di fusione simili a gelidi e lucidi coltelli recidono rami e tronchi.
Esplosioni di foglie e di detriti, centinaia di migliaia di chilometri più lontano, fanno vibrare come per terremoto il ramo e la capsula e il balcone dove ci troviamo.
Confusione di luce. Lance di energia saettano nello spazio, visibili grazie ai miliardi di particelle d’aria che sfugge, di materia organica polverizzata, di foglie in fiamme, di sangue di Ouster e di templari. Tagliano e bruciano qualsiasi cosa tocchino.
A meno di qualche chilometro, altre esplosioni sbocciano verso l’esterno. Il campo di contenimento regge ancora e il rumore ci spinge contro la parete della capsula che si increspa come la carne di un animale ferito. Il comlog di Aenea si spegne nello stesso istante in cui la curvatura dell’Albero Stella sopra di noi divampa ed esplode in spazio muto. Si odono grida e urla e rombi, ma so che entro pochi secondi il campo di contenimento cederà ed Aenea e io saremo risucchiati nello spazio insieme con altre tonnellate di detriti.
Cerco di tirare via Aenea, di riportarla nella capsula che intanto si autosigilla nel vano tentativo di sopravvivere.
«No, Raul, guarda!»
Guardo dove mi indica. Sopra di noi, poi sotto di noi e intorno a noi, l’Albero Stella brucia ed esplode: liane e rami si spezzano, angeli Ouster si consumano nelle fiamme, calamari lunghi dieci chilometri implodono, navi-albero avvampano nel tentativo di salpare.
«Uccidono gli erg!» grida Aenea, superando il rombo dell’aria e delle esplosioni.
Batto i pugni sulla parete della capsula, grido ordini. La porta a diaframma si apre giusto per un secondo, quanto mi basta per tirare dentro la mia amata.
Non c’è riparo, qui. Le esplosioni al plasma sono visibili dalle pareti polarizzate della capsula.
Aenea ha tirato fuori dell’armadietto la sua sacca e se la tira dietro. Prendo in fretta la mia e m’infilo nella cintura il fodero col coltello, come se potesse aiutarmi a combattere gli assalitori.
«Dobbiamo raggiungere la Yggdrasill!» grida Aenea.
Con una spinta ci lanciamo verso la parete dello stelo pressurizzato, ma la capsula non ci fa uscire. Il guscio ci trasmette un rombo.
«Lo stelo è squarciato» ansima Aenea. Ha ancora il comlog, vedo che è l’antiquato apparecchio della nave del console, e richiama dati dalla griglia dell’Albero Stella. «I ponti sono fuori uso. Dobbiamo raggiungere la nave-albero.»
Guardo dalla parete. Fiori di fiamma arancione. La Yggdrasill si trova dieci chilometri più in alto verso est lungo la superficie interna. Senza i ponti sospesi e lo stelo pressurizzato, potrebbero essere anche a mille anni luce da noi.
«Fai venire la nave» dico. «La nave del console.»