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A. Bettik diede l’esempio: tirò in su la barra di comando all’ultimo istante, tolse le gambe dalle staffe dell’imbracatura e usò l’aliante come paracadute. Rimbalzò due volte, tirò giù rapidamente l’aliante e staccò l’imbracatura. Lhomo ci aveva detto varie volte che era importante, atterrando in punti pericolosi e battuti dal vento, staccarsi in fretta dal parapendio per non essere trascinati al di là di qualche ciglione. E decisamente lì c’era un ciglione oltre il quale potevamo essere trascinati.

Aenea toccò terra subito dopo e io qualche secondo più tardi. Il mio fu il più malfatto dei tre atterraggi: rimbalzai in alto, ricaddi quasi a piombo, mi procurai nel pietrisco una storta alla caviglia e finii sulle ginocchia, mentre il parapendio urtava violentemente un masso sopra di me, piegava l’intelaiatura metallica e lacerava la stoffa dell’ala. L’aliante a quel punto si piegò all’indietro e mi tirò verso l’orlo del precipizio, proprio come aveva detto Lhomo; ma A. Bettik afferrò i puntoni di sinistra, Aenea afferrò un attimo dopo il longherone destro spezzato e insieme riuscirono a stabilizzare il parapendio quanto bastava perché mi liberassi dell’imbracatura e mi allontanassi zoppicando di qualche passo dal relitto, tirandomi dietro lo zaino.

Aenea si inginocchiò sulle rocce fredde e bagnate ai miei piedi, mi slacciò lo scarpone ed esaminò la caviglia. «Non mi pare una storta grave» disse. «Forse gonfierà un poco, ma dovresti farcela a camminare.»

«Bene» dissi come uno stupido, consapevole solo delle sue mani nude sulla mia caviglia nuda. Poi sobbalzai un poco, mentre Aenea spruzzava sul gonfiore un liquido preso dal medikit.

Lei e A. Bettik mi aiutarono a tirarmi in piedi. Prendemmo i bagagli e iniziammo a braccetto a risalire il pendio scivoloso verso il punto dove le nubi luccicavano più vividamente.

Sbucammo alla luce bene in alto sui sacri pendii del T’ai Shan. Mi ero tolto il cappuccio e la maschera, ma Aenea mi consigliò di tenere la dermotuta. Indossai il giubbotto termico per sentirmi meno nudo e notai che la mia amica mi imitava. A. Bettik si strofinava il braccio e vidi che per il freddo d’alta quota aveva la pelle quasi bianca.

«Stai bene?» gli domandai.

«Benissimo, signor Endymion. Ma ammetto che qualche minuto ancora a quell’altitudine…»

Guardai in basso le nuvole che coprivano il punto dove avevamo piegato e abbandonato gli alianti danneggiati. «Ho il sospetto che non lasceremo questa montagna in parapendio» notai.

«Non ti sbagli» disse Aenea. «Guarda.»

Eravamo usciti dalla distesa di massi tondeggianti e di pietrisco; ci trovavamo in un altopiano erboso fra grandi pareti di roccia: prati di cactus succulenti intersecati di piste di zigocapre e di sentieri con pietre per passare a guado. Sulle rocce scorrevano rivoli d’acqua di scioglimento glaciale, ma c’erano ponti fatti con lastre di pietra. In lontananza alcuni pastori ci avevano guardato senza interesse mentre salivamo. Ora, superato un tornante sotto i grandi campi di ghiaccio, vedevamo in alto quelli che potevano solo essere templi di pietra bianca posti su bastioni grigi. I luccicanti edifici, vividi contro la distesa biancazzura di ghiaccio e i pendii innevati che salivano fuori vista fino allo zenit, parevano simili ad altari. Aenea mi aveva indicato una grande pietra bianca e liscia, di fianco al sentiero, sulla quale era incisa questa poesia:

A cosa posso paragonare il Grande Picco?

Nelle province intorno, il suo colore verdazzurro mai scompare alla vista.

Dal Plasmatore infuso del sublime potere di divinità,

ombreggiato e assolato, con i pendii divide la notte dal giorno.

Con petto anelante salgo verso le nuvole

e sforzo gli occhi per seguire uccelli che volano a casa:

un giorno raggiungerò la sua impareggiabile vetta

e in una sola occhiata vedrò tutte le montagne.

TU FU, dinastia T’ang, Cina, Vecchia Terra

E così entrammo a Tai’an, la Città di Pace. Là, sui pendii, c’erano decine e decine di templi, centinaia di botteghe, locande e abitazioni, innumerevoli sacrari e una strada fervida d’attività, costeggiata di banchetti, ciascuno coperto da un vivace riparo di tela. Le persone erano attraenti, parola inadeguata, ma l’unica adatta, penso: tutte con capelli neri, occhi vivaci, denti candidi, pelle sana, orgoglio e vigore nel portamento e nell’andatura. Avevano abiti di seta e di cotone stampato, vivaci ma di semplice eleganza, e c’erano tantissimi monaci in tonaca arancione o rossa. Se la folla ci avesse guardato a occhi sgranati, sarebbe stato giustificabile: nessuno visita T’ai Shan nei mesi del monsone. Invece vidi solo occhiate calorose e di benvenuto. Anzi, parecchie persone nella via si mossero intorno a noi, salutarono per nome Aenea, le toccarono la mano o la manica. Ricordai allora che la mia amica aveva già visitato il Grande Picco.

Aenea indicò la grande lastra di roccia bianca che copriva un pendio sopra la Città di Pace. Sulla lucida faccia di quella lastra, ci spiegò, era scolpito, in enormi caratteri cinesi, il Diamond Sutra, uno dei lavori basilari della filosofia buddhista, che ricordava al monaco e al passante la natura finale della realtà, simbolizzata nella vuota distesa di cielo azzurro. Aenea ci indicò anche la prima Porta Celeste al limitare della città: un gigantesco voltone di pietra sotto un tetto rosso a forma di pagoda, con il primo dei ventisettemila gradini che portavano alla vetta di Giada.

Per quanto possa sembrare incredibile, eravamo attesi. Nel grande gompa al centro della Città di Pace più di milleduecento monaci in tonaca rossa, seduti a gambe incrociate, pazienti, in fila, aspettavano Aenea. Il lama residente l’accolse con un grande inchino; Aenea aiutò l’anziano monaco a rimettersi in piedi e lo abbracciò. Poi A. Bettik e io ci trovammo seduti su un lato della bassa piattaforma fornita di cuscini, mentre Aenea rivolgeva un breve discorso alla folla in attesa.

«La scorsa primavera annunciai che sarei tornata in questo periodo» disse piano, con voce perfettamente chiara nel grande spazio di marmo «e mi compiaccio di rivedervi tutti. Per quelli di voi che fecero comunione con me durante la mia ultima visita: so che avete scoperto la verità di apprendere il linguaggio dei morti, di apprendere il linguaggio dei vivi e, per alcuni di voi, di udire la musica delle sfere e presto, ve lo prometto, di muovere quel primo passo.

«Oggi è un giorno triste per molti aspetti, ma il nostro futuro risplende di ottimismo e di cambiamento. Sono onorata che mi abbiate permesso di essere il vostro maestro. Sono onorata che abbiate condiviso con me l’esplorazione di un universo che è ricco al di là di ogni immaginazione.»

Si interruppe e guardò A. Bettik e me. «Questi sono i miei compagni, il mio amico A. Bettik e il mio amato Raul Endymion. Hanno condiviso con me tutte le avversità del viaggio più lungo della mia vita e condivideranno il pellegrinaggio di oggi. Quando vi lasceremo, varcheremo oggi le tre Porte Celesti, entreremo nella Bocca del Drago e — il Buddha e i fati del caos volendo — visiteremo la principessa delle Nubi azzurre e vedremo il Tempio dell’Imperatore di Giada.»

Si interruppe di nuovo e guardò le teste rasate e i vivaci occhi neri. Quelli non erano fanatici religiosi, capii, né servi bruti né asceti che si punivano da soli; erano invece file su file di intelligenti, curiosi, attenti giovani uomini e donne. Ho detto "giovani", ma fra i visi freschi e giovanili c’erano facce con la barba grigia e rughe sottili.

«Il mio caro amico lama mi dice che molti altri vogliono unirsi a noi in comunione con il Vuoto che lega» disse Aenea.

Un centinaio di monaci nella prima fila cadde in ginocchio.

Aenea annuì. «Così sia» disse piano. Il lama portò brocche di vino e molte semplici coppe di bronzo. Prima di riempire le coppe o di incidersi il dito per le gocce di sangue, Aenea disse: «Prima di farvi partecipi di questa comunione, devo ricordarvi che si tratta di cambiamento fisico, non spirituale. La vostra personale ricerca di Dio o della Illuminazione deve rimanere solo questo: vostra ricerca personale. Il cambiamento non vi porterà satori né salvezza. Porterà solo… cambiamento».

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