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Al mio arrivo, Aenea era sveglia, vestita e pronta a partire. Si era messa l’anorak termico, l’imbracatura e gli stivali da montagna. A. Bettik e Lhomo Dondrub erano vestiti come lei e portavano in spalla lunghi fagotti dall’aria pesante, avvolti in nylon. Sarebbero venuti con noi. Altri erano lì per salutarci — Theo, Rachel, la Dorje Phamo, il Dalai Lama, George Tsarong, Jigme Norbu — e parevano tristi e preoccupati. Aenea aveva l’aria stanca: di sicuro neppure lei aveva dormito. Facevamo una bella coppia di avventurieri esausti. Lhomo mi diede uno dei lunghi fagotti avvolti nel nylon. Era pesante, ma lo misi in spalla senza domande né proteste. Presi il resto della mia attrezzatura, risposi alle domande di Lhomo sulle condizioni delle funi per salire fino alla cresta (evidentemente tutti pensavano che con grande altruismo fossi andato a fare un giro di ricognizione) e arretrai di un passo per guardare la mia amica e amata. Aenea mi scoccò un’occhiata interrogativa; risposi con un cenno d’assenso. "Tutto a posto. Sto bene. Sono pronto a partire. Ne parleremo più tardi."

Theo piangeva. Mi rendevo conto che era un addio importante, forse non ci saremmo più rivisti, anche se Aenea rassicurava le altre due donne e diceva che prima di notte ci saremmo riuniti tutti, ma ero troppo intontito emotivamente, troppo esausto per reagire. Mi staccai un momento dal gruppo per respirare a fondo e concentrarmi. Era probabile che nelle prossime ore avrei avuto bisogno di tutta la mia intelligenza e la mia prontezza solo per sopravvivere. "Il guaio di essere appassionatamente innamorato" pensai "è che ti toglie troppo sonno."

Partimmo dalla piattaforma est, scendemmo di buon passo la cornice ghiacciata, passammo davanti alle funi che avevo appena usato e arrivammo senza incidenti alla forra. Gli alberi bonsai e l’alta brughiera parevano antichi e irreali nella mobile foschia di ghiaccio; i rami scuri e le frasche ci schizzavano di gocce sulla testa, quando si stagliavano all’improvviso dalla nebbia. I corsi d’acqua e le cascatelle erano più rumorosi di quanto non ricordassi, mentre il torrente scivolava sopra l’ultima sporgenza e precipitava nel vuoto, alla nostra sinistra.

All’estremo est, nella parte più alta della forra, c’erano delle corde fisse, vecchie e non tanto affidabili; Lhomo si arrampicò per primo, seguito da Aenea, da A. Bettik e infine da me. Notai che il nostro amico androide saliva con la rapidità e l’abilità di sempre, malgrado gli mancasse la destra. Arrivati sulla cresta superiore, avevamo superato il punto più lontano da me raggiunto nel viaggio notturno: la forra faceva da barriera lungo la linea della cresta, dalla parte che avevo seguito io. Ora, mentre seguivamo strettissimi sentieri sul lato sud dello strapiombo, cominciavano sul serio le difficoltà: cornici quasi consumate, affioramenti rocciosi, di tanto in tanto una distesa di ghiaccio, pendii di pietrisco. La cresta sopra di noi era tutta un seracco di neve bagnata e di sporgenze ghiacciate, impossibile da percorrere. Ci muovevamo in silenzio, senza neppure un bisbiglio, ben sapendo che il minimo rumore poteva provocare una valanga che ci avrebbe spazzati in un secondo da quelle cornici larghe dieci centimetri. Finalmente, quando il percorso divenne perfino più difficile, ci legammo in cordata, facendo passare la corda nei moschettoni e agganciandone una doppia alle nostre imbracature: se uno di noi fosse caduto, sarebbe stato trattenuto dagli altri, o saremmo precipitati tutti. Con la salda guida di Lhomo, che scavalcava con fiducia dirupi pieni di nebbia e crepacci nel ghiaccio che avrei esitato a sfidare, ci sentivamo tutti meglio, penso, in cordata.

Ancora ignoravo la nostra destinazione. Ma sapevo che la grande cresta che correva a est dal K’un Lun e oltrepassava Jo-kung sarebbe terminata entro qualche chilometro, sprofondando all’improvviso, spettacolarmente, nelle nubi tossiche vari chilometri più in basso. In certe settimane primaverili, le maree e i capricci dell’oceano facevano scendere i vapori tossici tanto in basso che la cresta emergeva di nuovo, consentendo a carovane di provviste, pellegrini, monaci, mercanti e semplici curiosi di spingersi a est del Regno di mezzo fino al T’ai Shan, il Grande Picco del Regno di mezzo e il più inaccessibile punto abitato del pianeta. I monaci che vivevano sul T’ai Shan, si diceva, non tornavano mai al Regno di mezzo o al resto delle Montagne del cielo: da innumerevoli generazioni avevano dedicato la vita alle misteriose tombe, gompa, cerimonie e templi sul più sacro dei picchi. Ora, mentre il tempo per noi peggiorava, capii che se avessimo iniziato a scendere, avremmo saputo di essere passati dalle turbolente nubi monsoniche alle turbolente nubi di vapori tossici solo quando l’aria venefica ci avesse ucciso.

Non scendemmo. Dopo parecchie ore di viaggio in totale silenzio, giungemmo al precipizio sul confine orientale del Regno di mezzo. Il monte T’ai Shan non era visibile, ovviamente: anche se il cielo si era schiarito un poco, non si vedeva quasi niente, a parte la parete bagnata dello strapiombo davanti a noi e le volute di nebbia e le configurazioni di nubi tutto intorno.

Qui, sul bordo orientale del mondo, c’era un’ampia cornice; ci sedemmo con gioia a riposare, mangiammo panini freddi presi dai sacchi e bevemmo acqua dalle borracce. Le minuscole piante grasse che tappezzavano quell’erta brughiera cominciavano a diventare tumescenti: si rimpinzavano della prima umidità dei mesi monsonici.

Dopo colazione, Lhomo e A. Bettik si misero a disfare i tre pesanti fagotti. Aenea aprì la lampo del suo zaino, che pareva più pesante delle sacche che avevamo portato noi uomini. Non fui sorpreso nel vedere che cosa era avvolto nei tre fagotti: nylon, montanti e intelaiature di lega leggera, sartiame e, nel pacco di Aenea, altra roba del genere, oltre alle due dermotute e ai due riciclo-respiratori che avevo portato con me dalla nave e di cui mi ero in pratica dimenticato.

Sospirai e guardai a est. «Allora cercheremo di raggiungere il T’ai Shan» dissi.

«Sì» confermò Aenea. Cominciò a spogliarsi.

A. Bettik e Lhomo guardarono da un’altra parte, ma io mi arrabbiai al pensiero che altri uomini vedessero la mia amata senza niente addosso. Mi dominai, stesi per terra l’altra dermotuta e cominciai a spogliarmi, ripiegando i vestiti nello zaino man mano che li toglievo. L’aria era fredda e la nebbia mi si appiccicava alla pelle.

Mentre Lhomo e A. Bettik montavano i parapendii, Aenea e io ci vestimmo, per così dire: le dermotute erano proprio ciò che il nome indicava, una seconda pelle quasi alla lettera, ma l’imbracatura e le cinghie dei respiratori ci consentivano un minimo di decoro. Il cappuccio mi fasciò la testa più strettamente di una cuffia da sommozzatore e mi appiattì le orecchie contro il cranio. Solo i filtri auricolari consentivano che il suono si propagasse: una volta in aria, avrebbero raccolto le trasmissioni via filo.

Dai pezzi contenuti negli involti, Lhomo e A. Bettik ricavarono quattro parapendii. Come in risposta alla mia domanda inespressa, Lhomo disse: «Posso solo mostrarvi le termali e assicurarmi che arriviate alla corrente a getto. Non posso sopravvivere a quella altitudine. E non voglio andare al T’ai Shan, viste le scarse probabilità di fare ritorno».

Aenea gli toccò il braccio. «Non abbiamo parole per ringraziarti di guidarci alla corrente a getto.»

Lhamo Dandrub, l’aviatore senza paura, arrossì davvero.

«E A. Bettik?» domandai. Mi accorsi subito di parlare del nostro amico come se non fosse presente; mi girai e gli dissi: «E tu? Non ci sono dermotuta e respiratore per te».

A. Bettik sorrise. Avevo sempre pensato che i suoi rari sorrisi fossero la cosa più saggia che avessi mai visto su lineamenti umani, anche se tecnicamente quell’uomo dalla pelle azzurra non apparteneva alla specie umana.

«Dimentica, signor Endymion, che sono stato progettato per sopportare qualcosa di più dell’essere umano medio.»

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