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«Però c’era un uomo» dissi, sentendo le parole uscirmi di bocca come sassolini. «L’hai amato…» "Solo uno? Quanti?" Avrei voluto urlare ai miei pensieri di piantarla.

Aenea mi mise il dito sulle labbra. «Io amo te, Raul. Non dimenticartene, mentre ti dico queste cose. Tutto è… ingarbugliato. Da chi sono io. Da ciò che devo fare. Ma ti amo, ti ho amato dalla prima volta che ti ho visto nei sogni del mio futuro. Già ti amavo quando ci siamo incontrati nella tempesta di sabbia su Hyperion, con la confusione e gli spari e lo Shrike e il tappeto Hawking. Ricordi come ti stringevo, quando volavamo sul tappeto Hawking nel tentativo di fuggire? Ti amavo già allora…»

Rimasi in silenzio. Aenea spostò il dito, dalle mie labbra alla guancia. Sospirò, come se avesse sulle spalle il peso d’interi pianeti. «E va bene» disse piano. «Qualcuno c’è stato. Avevo già fatto l’amore. Noi…»

«Era una cosa seria?» la interruppi. La voce mi suonò strana, come quella artificiale della nave.

«Ci siamo sposati» disse Aenea.

Una volta, sul fiume Kans, su Hyperion, mi ero impegolato in una scazzottatura con un barcaiolo più vecchio di me, che pesava quasi il doppio e aveva molta più pratica di zuffe. Senza preavviso mi aveva beccato alla mascella, con un pugno che mi aveva annebbiato la vista, piegato le ginocchia, fatto barcollare contro la ringhiera della chiatta e cadere nel fiume. Il barcaiolo non mi aveva serbato rancore e si era tuffato a ripescarmi. In un paio di minuti avevo ripreso conoscenza, ma erano passate ore, prima che mi togliessi dalla testa il ronzio e riuscissi a mettere a fuoco la vista.

Stavolta fu ancora peggio. Potevo solo restare disteso lì dov’ero, guardare Aenea, la mia amata Aenea, e sentire le sue dita contro la mia guancia, strane e fredde e aliene come il tocco di un estraneo. Aenea scostò la mano.

Non era finita: c’era di peggio.

«I ventitré mesi, sette giorni e sei ore non giustificati» disse Aenea.

«Con lui?» Non ricordavo di avere formulato quelle due parole, ma furono dette con la mia voce.

«Sì.»

«Sposati…» Non riuscii a proseguire.

Aenea sorrise, ma fu il sorriso più triste che le abbia mai visto. «Da un prete» ammise. «Il matrimonio sarà legale agli occhi della Pax e della Chiesa.»

«Sarà?»

«È legale.»

«Sei ancora sposata?» Avevo voglia di alzarmi e di vomitare dall’orlo della piattaforma, ma non riuscivo a muovermi.

Per un momento Aenea parve confusa, incapace di rispondere. «Sì…» disse poi, con occhi lucidi di lacrime. «Cioè, no… non sono sposata, ora… tu… maledizione, se solo potessi…»

«Ma quell’uomo è ancora vivo?» la interruppi, con voce piatta e inespressiva come quella di un inquisitore del Sant’Uffizio.

«Sì» rispose Aenea. Si toccò la guancia. Le dita le tremavano.

«Lo ami, ragazzina?»

«Io amo te, Raul!»

Mi ritrassi leggermente, senza accorgermene, non di proposito; ma non potevo sopportare il suo contatto fisico, mentre discutevamo di quella faccenda.

«C’è un’altra cosa…» disse Aenea.

Rimasi in silenzio.

«Abbiamo… avrò… ho avuto un bambino, un figlio.» Mi guardò come per costringermi a capire solo con la forza del suo sguardo dritto nella mia mente. Non funzionò.

«Un figlio» ripetei stupidamente. La mia cara amica… la mia amica bambina diventata donna diventata amante… la mia amata aveva un figlio. «Quanti anni ha?» dissi, sentendo quella banale domanda come il tuono che brontoli più vicino.

Aenea parve di nuovo confusa, come incerta dei fatti. Alla fine disse: «Il bambino… non è in nessun posto dove possa ora trovarlo».

«Oh, ragazzina» dissi, dimenticando tutto all’infuori della sua sofferenza. La strinsi a me, mentre piangeva. «Mi dispiace, ragazzina… mi dispiace davvero» dissi, dandole dei colpetti sulla testa.

Aenea si scostò, si asciugò le lacrime. «No, Raul, non capisci. È tutto a posto… non è… questa parte è a posto…»

Mi ritrassi e la fissai: era straziata, singhiozzava. «Capisco» dissi. In realtà non capivo un bel niente.

«Raul…» La sua mano cercò la mia.

Le diedi un colpetto sulla mano, ma uscii dal letto, mi rivestii, presi l’imbracatura da scalata e il sacco, lasciati come al solito accanto alla porta.

«Raul…»

«Sarò di ritorno prima dell’alba» dissi, rivolto più o meno verso di lei, ma senza guardarla. «Vado solo a fare due passi.»

«Lasciami venire con te.» Si alzò, avvolta nel lenzuolo. Dietro di lei balenò il lampo. Un’altra tempesta in arrivo.

«Sarò di ritorno prima dell’alba» ripetei e varcai la porta prima che Aenea potesse vestirsi o unirsi a me così com’era.

Pioveva: una pioggia fredda, mista a nevischio. Sulle piattaforme si formò presto una patina scivolosa. Corsi giù per le scale a pioli e percorsi a passo svelto le scalinate vibranti, trovando la strada grazie alla luce dei lampi, senza rallentare finché non fui varie centinaia di metri più in basso sulla passerella della cresta orientale, diretto alla forra dove ero atterrato con la nave. Non volevo andare lì.

A mezzo chilometro dal tempio, corde fisse salivano in cima alla cresta. Ora il nevischio batteva contro la parete dello strapiombo; le corde rosse e nere erano rivestite di una patina di ghiaccio. Agganciai moschettoni alla corda e all’imbracatura, tolsi dal sacco gli ascenders a motore e li attaccai senza ricontrollare il collegamento; poi cominciai a risalire con le jumar le corde ghiacciate.

Il vento si alzò, mi sferzò il giubbotto, mi spinse lontano dalla parete rocciosa. Il nevischio mi tempestò la faccia e le mani. Non ci badai e salii, a volte scivolando indietro per tre o quattro metri, quando le ganasce delle jumar non facevano presa sulla corda ghiacciata, per poi riprendermi e arrampicarmi di nuovo. Dieci metri sotto l’affilata sommità della cresta, emersi dalle nubi come un nuotatore che venga a galla. Lassù le stelle ardevano ancora, gelide, ma la massa di nubi sempre più gonfie si ammucchiava contro la parete nord della cresta e montava come una marea biancastra intorno a me.

Feci scivolare gli ascenders più in alto e usai le jumar finché non raggiunsi la zona relativamente piatta dove erano agganciate le corde fisse. Solo allora mi accorsi di non avere agganciato la fune di sicurezza.

«Chi se ne frega» dissi e iniziai a camminare a nordest lungo la linea di displuvio larga quindici centimetri. La tempesta saliva intorno a me verso nord. Il precipizio a sud era chilometri di vuoto nero. Si erano già formate lastre di ghiaccio e cominciava a nevicare.

Mi misi a correre verso est, saltando le lastre di ghiaccio e le fessure, sbattendomene di tutto.

Mentre ero ossessionato dalla mia infelicità, altri eventi accadevano nell’universo umano. Su Hyperion, quando ero ragazzo, le notizie filtravano lentamente dalla Pax interstellare ai nostri carrozzoni in continuo movimento nelle brughiere: un avvenimento importante su Pacem o su Vettore Rinascimento o su un altro pianeta era necessariamente vecchio di molte settimane o mesi per il debito temporale, più altre settimane per il transito da Port Romance o da un’altra grande città alla nostra regione provinciale. Ero abituato a non badare agli avvenimenti accaduti altrove. Quando facevo la guida a cacciatori di altri pianeti nelle paludi e altrove, il ritardo nelle notizie era diminuito, ovviamente, ma si trattava sempre di notizie vecchie e per me di scarsa importanza. La Pax non mi incantava, anche se non potevo dire lo stesso del viaggio su altri pianeti. Poi ero rimasto in pratica isolato per quasi dieci anni: il nostro periodo sulla Vecchia Terra e la mia odissea con cinque anni di debito temporale. Non ero abituato a pensare a eventi in altri luoghi, se non quando mi toccavano da vicino, come per esempio l’ossessione della Pax per trovarci.

Ma presto il mio atteggiamento sarebbe cambiato.

Quella notte, su T’ien Shan, le Montagne del cielo, correvo come uno stupido tra il nevischio e la nebbia lungo la stretta cresta e intanto in altri luoghi accadevano alcuni eventi.

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