Ma un’altra parte di lei, molto più profonda, guardava Chris e il serpente e non sapeva come comportarsi.
18
Risveglio totale
Gaby aveva sperato di poter giungere fino ad Aglaia prima di montare l’accampamento, ma ora vide che quei progetti erano poco realistici. Cirocco non era in condizione di proseguire.
In realtà, avevano tenuto una buona media. Il ritmo mantenuto dai titanidi con le pagaie li aveva portati all’ultima ansa settentrionale fatta da Ofione prima di volgere definitivamente il suo corso verso est. Una piattaforma di roccia, coperta di relitti trasportati dall’acqua, si sporgeva entro l’alveo del fiume e forniva un comodo argine su cui fermare le canoe. In cima a un piccolo poggio c’era un gruppo di alberi, e lassù i titanidi montarono l’accampamento, con Chris e Robin che cercavano di aiutare e che in realtà facevano solo perdere tempo.
Gaby calcolava che la pioggia fosse destinata a durare per varie decariv. Avrebbe potuto mettersi in contatto con Gea per accertarsene, o addirittura, con ottime ragioni, avrebbe potuto chiederle di farla cessare. Ma il tempo atmosferico era assai regolare su Gea. Già molte volte aveva visto una pioggia di trenta ore venire dopo un’ondata di calore di due ettoriv, e pareva che anche quella volta la successione fosse destinata a ripetersi. Le nubi erano basse e ininterrotte.
A nordest riusciva a distinguere con difficoltà la Casa del Vento, l’ancoraggio su Iperione del cavo inclinato di sostegno che era noto come Scala di Cirocco. Il cavo svaniva nella coltre di nubi, e pareva soltanto una macchia più scura, indistinta, prima di uscire da esse, in qualche punto a nord della posizione di Gaby. Le parve di scorgere un chiarore al di sopra delle nubi, dove il cavo, ormai libero, rifletteva la luce illuminando anche la propria immensa ombra.
La Scala di Cirocco. Fece un sorrisino, ma senza amarezza. Quasi tutti parevano essersi dimenticati che le persone che si erano arrampicate sul cavo erano due. Ma la cosa non le dava fastidio. Sapeva che, a parte la strada da lei costruita, su quel folle mondo Cirocco aveva lasciato molti più segni di lei.
Salì in cima al poggio e osservò divertita Chris e Robin che cercavano di rendersi utili. I titanidi erano troppo cortesi per rifiutare le loro offerte di aiuto, e così finiva che le cose che si potevano fare in cinque minuti ne richiedevano quindici. E, naturalmente, era la cosa da farsi. Chris non aveva parlato dei suoi precedenti, ma era un ragazzo di città, a parte qualche escursione nelle foreste addomesticate della Terra. Robin veniva da una iper-città, anche se la periferia della Congrega era piena di piantagioni e di mucche pittoresche. In tutta la sua vita non aveva mai visto qualcosa di selvatico, di non pianificato.
Quando giunse il momento di preparare il cibo, però, i titanidi piantarono in terra tutt’e quattro i piedi e allontanarono i giovani umani. La cucina dei titanidi era quasi perfetta come la loro musica. Per il primo giorno di viaggio frugarono tra i pacchetti e cercarono i cibi che rischiavano di guastarsi: i bocconi scelti, portati per essere mangiati subito. Gettarono legna sul fuoco e costruirono attorno a esso un muretto circolare di sassi levigati, tirarono fuori le pentole di rame, e fecero i gesti magici con cui i titanidi riuscivano a trasformare carne e pesce in miracoli di improvvisazione.
Poco più tardi, il frutto della loro attività cominciò a diffondersi nell’aria. Gaby si sedette ad assaporare quell’attesa, e si sentì felice come non lo era più stata da molto tempo. Si ricordava di cibi molto più semplici, mangiati in compagnia, molti anni prima, quando lei e Cirocco, stanche e doloranti e senza la certezza di sopravvivere ancora per un altro giorno, erano state vicine più che mai. Erano ricordi dolci e amari insieme, ma l’età le aveva insegnato che per sopravvivere occorreva afferrarsi alle buone cose della vita. Avrebbe potuto lamentarsi di tutto ciò che era andato storto da quel giorno lontano in poi, o avrebbe potuto preoccuparsi per Cirocco, che in quel momento, nella tenda, in preda ai conati, architettava qualche piano per recuperare la bottiglia dalla sacca di Salterio. Invece, preferiva assaporare l’odore del buon cibo, ascoltare il rumore rassicurante della pioggia che si mescolava ai canti dei titanidi, sentire il primo soffio della brezza rinfrescante, lungamente attesa, che giungeva dall’est.
Aveva centotré anni, e partiva per un viaggio che, come tutti i suoi viaggi precedenti, forse non avrebbe mai finito. Su Gea non c’erano assicurazioni sulla vita, neppure per la Maga. Tantomeno per una rompiscatole indipendente come lei, che veniva tollerata da Gea unicamente perché si poteva fare più affidamento su di lei che su Cirocco.
L’idea non la turbava affatto. Contava di sopravvivere e di prosperare. Un tempo, l’idea di raggiungere un’età come la sua sarebbe stata inconcepibile, ma ora sapeva che i centenari sono sempre giovani, sotto la loro scorza; lei, accidentalmente, aveva la fortuna di avere anche un aspetto giovanile e di sentirsi giovane. Oggi si sentiva sedicenne, sui Monti San Bernardino, con il suo telescopio e il suo fuoco, entrambi fatti da lei, in attesa che il cielo si oscurasse e che comparissero le prime stelle. Cosa si poteva chiedere di più alla vita?
Sapeva di non poter crescere di più. Né si aspettava di farlo. Con l’aumentare dell’età, si era accorta che aumentavano l’esperienza e la conoscenza, si allargavano le prospettive. C’erano molte cose che, in apparenza, potevano continuare a crescere per sempre, ma in realtà si raggiungeva a un certo punto un plateau di saggezza. Se fosse riuscita a giungere al secondo secolo, non si aspettava di cambiare ancora in modo significativo. Queste idee le avevano dato un po’ di preoccupazione al compimento dell’ottantesimo anno, ma ormai aveva smesso di pensarci. Le bastavano le preoccupazioni di ciascun giorno.
E quel giorno le riservava ancora una preoccupazione, prima di concludersi.
Guardò Robin che si muoveva accanto al fuoco, e trasse un sospiro.
Il pranzo era al solito livello di eccellenza dei titanidi, a parte una singola nota aspra. Alla lettera. Di tanto in tanto, l’arte culinaria dei titanidi impiegava una potentissima spezia che era preparata dai semi macinati di un frutto azzurro, grosso come un cocomero. Aveva un elegante nome nel linguaggio cantato dei titanidi, ma gli umani la chiamavano generalmente "iper-limone". Era bianca e granulosa, e pochi pizzichi erano sufficienti per qualsiasi ricetta.
Quando il cibo fu quasi pronto per essere servito, Salterio si voltò all’improvviso e sputò in terra il boccone di verdura che stava assaggiando. Per qualche momento gli bruciarono troppo le labbra per riuscire a parlare, e gli altri titanidi lo guardarono con aria interrogativa. Lui indicò il cucchiaio, e Valiha ne assaggiò il contenuto, con la punta della lingua. Fece una smorfia.
Non occorse molto tempo per scoprire che un sacchetto di cuoio con la scritta SALE conteneva in realtà concentrato di iper-limone. Era stata Oboe ad acquistare quel sacchetto. Dopo molte discussioni, i quattro titanidi, scandalizzatissimi dell’accaduto, giunsero alla conclusione che il venditore, un ex dedito alla tequila, e ora convinto astemio, chiamato Cetra, aveva deciso, per qualche suo motivo, di fare quello scherzo al gruppo della Maga.
Nessuno dei titanidi riuscì a ridere della burla. Secondo Gaby non si trattava di una grande cosa, anche se dovettero gettare via una pentola di verdura. Avevano ancora una buona scorta di vero sale. Un controllo delle altre provviste non rivelò ulteriori sostituzioni. Ma, per un titanide, sprecare del buon cibo era un peccato mortale. Nessuno di loro riusciva a capire perché Cetra avesse loro giocato quel tiro.
— Andrò subito a chiederglielo, al nostro ritorno — promise Salterio, buio in volto.