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— Faccio le mie scuse.

— Non ho ancora finito. — Ma poi alzò le spalle, si sedette accanto a lui e continuò, con più calma: — Non so, può darsi che faccia uno sbaglio anch’io. Trini… — Scosse la testa. — Qui dentro ho capito molte cose, e non tutte negative. Temo ormai di essere alquanto cambiata, rispetto a quella che ero, e di incontrare delle difficoltà di inserimento, quando sarò di nuovo a casa. A proposito di casa, anzi, a volte non ricordo neppure com’è fatta. Mi sembra di essere qui da un milione di anni. Ho visto che molte cose in cui credono le mie sorelle sono solo delle favole, ma non credo di essere in grado di dirglielo.

— Quali cose? — chiese Chris.

Lei lo guardò con la coda dell’occhio, e incurvò l’angolo della bocca.

— Cosa vuoi, l’ultimo rapporto della donna venuta da Marte? Va bene. La prima cosa è che il pene maschile non è lungo come il mio braccio, anche se agli uomini piacerebbe che lo fosse. Mia madre si sbagliava. Un altro suo errore è che gli uomini vogliano sempre violentare le donne, senza un minuto di tregua. Terzo, che gli uomini siano sempre malvagi.

«Ma negli ultimi tempi ho parlato molto con Trini. Per la prima volta, ho potuto parlare con una donna che conosce la società della Terra. E ho visto che c’erano delle esagerazioni. Il sistema di repressione e di sfruttamento non è grave come credevamo noi, ma c’è ancora, anche dopo un secolo dal giorno in cui le mie sorelle se ne sono andate. Mi sono chiesta se consigliare alla Congrega di fare qualche apertura in tal senso, ma poi ho deciso di non farlo. Se sulla Terra ci fosse l’uguaglianza perfetta, forse avrei potuto decidere diversamente, ma anche in tal caso non ne sarei proprio sicura. Perché cambiare? In noi non c’è niente di anormale. Poche mie sorelle potrebbero fidarsi di un uomo, e pochissime potrebbero amarlo; quindi, a cosa ci serve la Terra?»

— Non lo so neanch’io — disse Chris. Poi aggiunse: — Voglio dire, io non ho proprio niente contro la Congrega. Non c’era bisogno che tu difendessi ai miei occhi il vostro modo di vivere. Non ha bisogno di essere difeso agli occhi di nessuno. — Gli venne in mente una cosa. — A proposito, penso che nella comunità sarai più rispettata, adesso.

— Cosa intendi dire?

— Il tuo nuovo dito. Farsi ricrescere il dito deve essere prova di grande labra.

Lei si fissò la mano per un momento, poi fece una risatina perfida.

— Già, hai ragione.

Chris si recò alla finestra, e guardò Valiha, in paziente attesa ai piedi della scala.

— Quando parte la tua nave?

Robin guardò l’orologio, e anche Chris guardò il suo. Dal loro ritorno, non riuscivano a vivere senza guardare continuamente l’orologio.

— Ho ancora una decariv… dieci ore.

— Valiha ha preparato un picnic. Pensava a un posticino fresco, accanto al fiume. Venivo a invitarti, ma adesso può diventare la festa d’addio. Vieni?

Lei sorrise. — Mi piacerebbe, ma prima devo fare i bagagli.

Chris la aiutò, e presto finirono di riempire le tre sacche. Robìn ne prese due, e cercò di prendere anche la terza.

— Vuoi che ti dia una mano?

— No, posso farcela da… cosa dico? Io mi occupo di queste, e tu prendi l’altra. Lasciamole al portiere; le manderà lui alla nave.

Scesero la scala e consegnarono ì bagagli. Poi si recarono da Valiha e Serpentone. Si allontanarono dall’albergo di Titantown, senza fretta, e si trovarono sotto la Finestra di Iperione. Faceva caldo, ma da Oceano giungeva una leggera brezza che prometteva un abbassamento della temperatura. Nel cielo c’era un po’ di foschia, che aveva origine da un punto degli altopiani dove le forze aeree di Cirocco avevano trovato una creatura produttrice di carburante, madre e assistente delle bombe volanti. Continuava a bruciare da mezza chiloriv.

Ma l’aria era dolce, nonostante quel lontano fumo, era piena dell’odore dei raccolti dei titanidi, ormai prossimi alla mietitura, e per il momento era priva di minacce. La strada polverosa da loro seguita si snodava in mezzo a basse collinette. Da ogni lato si alzava la curva di Gea, come le braccia protettrici di una madre.

Stesero la tovaglia sulla riva dell’Ofione. Mentre mangiavano, Chris guardava il fiume, chiedendosi quante volte quelle acque fossero già passate da quel punto, e quante volte ancora vi sarebbero ritornate, prima che la lunga vita di Gea avesse termine. Quando i titanidi cominciarono a cantare, anche lui si unì senza riserve. Dopo un poco, anche Robin cantò con loro. Risero, bevvero, piansero un poco e cantarono, finché non giunse l’ora di andarsene.

EPILOGO

Semper fidelis

La ruota continuava a girare, e Gea continuava a essere sola.

L’astronave terrestre della morte si trovava dove era sempre stata, immersa nel pozzo gravitazionale di Saturno. L’equipaggio era sostituito ogni anno per ridurre la noia del servizio. Ogni dieci anni il carico di armi nucleari era controllato, e quelle difettose erano sostituite.

Non era una vana minaccia, ma Gea la ignorava lo stesso. Non intendeva dare loro una scusa per attaccare. Finché la Terra aveva bisogno di lei, lei era al sicuro, e fare in modo che la Terra avesse bisogno di lei era compito suo. Era politicamente inconcepibile che qualche parlamento o qualche dittatura della Terra si opponesse a lei. La storia dei pellegrini, se fosse giunta all’orecchio della popolazione della Terra, avrebbe potuto causarle un temporaneo imbarazzo, ma non di più. Gea aveva ancora mille doni da dare. Il suo sistema antispionistico serviva solo a divertirla; le piaceva l’idea che i pellegrini, al loro arrivo, ignorassero ogni cosa.

Per capire fino a che punto fosse indifferente alla presenza di quelle bombe in orbita, è sufficiente dire che riteneva che la Terra fosse un pericolo leggermente inferiore a quello costituito dalla Maga rinnegata, e quest’ultimo pericolo era infinitesimale, incalcolabile. Ma Gea era cauta, e volle calcolarlo lo stesso. Nel centro del mozzo, i suoi pensieri corsero più veloci della luce in una matrice cristallina di spazio la cui stessa esistenza era in contrasto con la fisica nota agli scienziati della Terra. Nella matrice si aprivano grandi buchi, come gli alveoli di denti perduti, ma anche ora, nel periodo della sua decadenza, la mente di Gea aveva una potenza tale da superare di gran lunga tutte le macchine da calcolo dei terrestri messe insieme.

E la risposta fu quella che già sapeva. Cirocco non era un pericolo.

Gli Altopiani erano unici, su Gea. Anche se ogni loro chilometro era legato a un cervello regionale, il controllo che sì poteva effettivamente esercitare in luoghi cosi distanti dai centri del potere era trascurabile. In un certo senso, si trattava di una terra di nessuno.

Nella zona crepuscolare tra Rea e Iperione, ben al di sopra del territorio abitato, nella zona più inaccessibile degli altopiani, un titanide solitario stava di guardia davanti all’imboccatura di una caverna. Non molto lontano, un miliardo di piante di coca crescevano rigogliose. Udì giungere un rumore dall’interno della caverna, si voltò, ed entrò.

Cirocco Jones, fino a poco tempo prima Maga di Gea, ma ora chiamata Demonio, si era svegliata, e si agitava in preda ai brividi, con i sudori freddi. Era nuda, e così magra che si vedevano le costole. Aveva gli occhi profondamente infossati.

Cornamusa sì recò da lei e la tenne ferma finché non cessò di tremare. Aveva scovato una scorta di liquore poco dopo il suo arrivo su Iperione, anche se la Casa della Melodia era stata cancellata dal più singolare fenomeno meteorologico che si fosse mai visto su Gea: una pioggia di cattedrali. Cornamusa l’aveva trovata, e l’aveva portata alla caverna.

Le sollevò la testa e la aiutò a bere acqua da una tazza. Quando la sentì tossire, lasciò che si sdraiasse di nuovo.

Ma presto Cirocco aprì di nuovo le palpebre. Per la prima volta dopo molti giorni, riuscì a rizzarsi a sedere senza aiuto. Cornamusa la guardò negli occhi, scorse il fuoco che vi aveva già visto molte volte in passato, e si rallegrò.

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