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Giunse in cima al plateau di Aglaia, alle Nebbie Basse. Presto se le lasciò alle spalle, e trotterellò lungo l’argine del Lago di Aglaia, da dove si scorgeva Talia, nella distanza, ingordamente intenta a ingoiare le acque lacustri. Salì alle Nebbie Mediane, e poi a Eufrosine e alle Nebbie Alte. Lassù Ofione ridiveniva un fiume, per un breve tratto, prima di entrare nel sistema a doppia pompa che lo sollevava fino al Mare di Mezzanotte.

Prima di giungere alle ultime pompe, Salterio deviò verso nord e seguì il corso di un piccolo torrente di montagna. Lo passò al guado in un punto dove l’acqua era bianca di spuma, e da quel punto in poi si arrampicò sul fianco della montagna. Da qualche tempo era uscito da Iperione e si trovava in Rea, ma su Gea le linee di confine non erano mai ben definite. Il viaggio era iniziato nel centro della zona crepuscolare tra Iperione e Rea, l’area indistinta tra l’eterna, ma bassa, luce diurna del primo e l’eterna notte senza luna dell’altra. Procedendo lungo il suo tragitto, si era progressivamente avvicinato alla notte, e in qualche punto indeterminato dei Monti Asteria l’aveva raggiunta. Per lui, la notte di Rea non comportava problemi di visibilità; la visione notturna dei titanidi era perfetta, e in quella zona prossima al confine giungeva ancora molta luce riflessa dalle pianure di Iperione, che salivano alle loro spalle.

Salì sulla montagna arrampicandosi lungo un sentiero stretto ma ben delineato. Con una serie di stretti tornanti alpini superò due passi e giunse alle profonde vallate situate al di là dei monti. Le montagne di Rea erano scoscese e rocciose, con inclinazione media di una settantina di gradi. Gli alberi di alto fusto erano scomparsi, ma il terreno era coperto di licheni spessi e compatti come un panno da biliardo. Di tanto in tanto si scorgevano cespugli dalle larghe foglie, le cui radici affondavano nella roccia viva e scendevano per varie centinaia di metri prima di giungere al corpo nutriente di Gea, le vere ossa della montagna.

Presto riuscì a scorgere l’insegna luminosa della Casa della Melodia, in mezzo a due montagne. Dopo avere svoltato dietro un costone, si affacciò su una scena che era davvero unica, perfino su Gea che aveva la passione per l’inconsueto.

Tra due cime montane appuntite si stendeva una stretta sella di terreno: un altopiano che sui fianchi scendeva quasi a perpendicolo. Il plateau centrale era chiamato Machu Picchu, dal nome del luogo in cui gli inca avevano costruito fra le nuvole una città di pietra. Un singolo raggio di luce, proveniente dagli specchi che illuminavano Iperione, si era inspiegabilmente allontanato dal gruppo ed era entrato nella notte, per illuminare di luce dorata il pianoro. Era come se il sole, in un pomeriggio di tempesta, avesse trovato un piccolissimo varco tra le nubi più nere che si possano immaginare.

Sull’intero Machu Picchu sorgeva un solo edificio. La Casa della Melodia era una casa di legno a due piani, dipinta di bianco, con un tetto di pietra verde. Vista da quella distanza, pareva una casa giocattolo.

— Siamo arrivati, Capo — cantò il titanide. Gaby si rizzò a sedere, si strofinò gli occhi, si voltò a guardare la Valle Cirocco.

— "Guardate le mie opere, o Numi, e disperate" — mormorò. — Salterio, quella ragazza deve farsi esaminare il cervello. Qualcuno dovrebbe dirglielo, una volta o l’altra.

— Gliel’hai detto tu stessa, la scorsa volta — le ricordò Salterio.

— Già, hai ragione. — Gaby rabbrividì. Quel ricordo le faceva ancora male. — Scendiamo, per piacere.

Seguendo il sentiero, giunsero alla stretta striscia di terra che portava al Machu Picchu. Per raggiungere il pianoro occorreva servirsi di un ponte di corda, sopra un profondo abisso. Con pochi colpi d’ascia, quel ponte poteva essere facilmente abbattuto, isolando così Cirocco da qualsiasi attacco, eccettuati quelli dall’aria.

All’altra estremità del ponte sedeva un giovanotto con scarpe chiodate e tuta color kaki. Dalla sua espressione delusa, Gaby lo etichettò subito come uno dell’interminabile processione di pretendenti che, anno dopo anno, si recava laggiù a conquistare le grazie della misteriosa, solitaria Maga di Gea. Quando arrivavano, di solito scoprivano che era tutt’altro che solitaria, che aveva già tre o quattro ganzi in servizio permanente effettivo, e che era straordinariamente facile da conquistare. Finire a letto con lei non era particolarmente difficile, se non dava fastidio la folla. Uscirne senza conseguenze era tutt’altra cosa. Cirocco tendeva a prosciugare l’anima dei suoi amanti, e se la loro anima era talmente sottile da lasciarsi prosciugare, lei non se ne faceva più niente. Rispetto a ciascuno di loro, aveva settant’anni di esperienza di più. Sarebbe bastato questo a renderla affascinante, ma novantacinque anni di attività sessuale le avevano dato un’abilità sovrumana, molto al di là della loro immaginazione. Si innamoravano di lei a decine, e lei li allontanava educatamente quando la loro infatuazione cominciava a diventare seccante. Gaby li chiamava i Bimbi Abbandonati.

Mentre attraversava il ponte, osservò con diffidenza quello che aveva davanti a sé. Ogni tanto, uno di loro si buttava giù. Gaby capì che ne aveva l’intenzione quando lo vide rispondere con un pallido sorriso al gesto con cui gli indicava la strada per Titantown e la sua vita di tutti i giorni.

Giunta alla veranda della casa bianca, balzò a terra e proseguì a piedi. Anche se le porte della casa erano costruite sulla misura dei titanidi, nessuno di loro entrava mai all’interno se non era personalmente invitato dalla Maga. Gaby salì con un balzo i quattro scalini che portavano alla porta d’ingresso e afferrò la maniglia di ottone prima di accorgersi che nella veranda c’era un dondolo da cui sporgeva un braccio. Più in là si scorgeva anche un piede. Il resto era nascosto sotto una coperta titanide, sudicia, grande come un tappeto.

Provando a sollevare la coperta, scorse la bocca aperta di Cirocco Jones, già comandante della nave spaziale Ringmaster, ora Maga di Gea, Retromadre dei Titanidi, Comandante di Stormo degli Angeli, Ammiraglio della Flotta degli Aerostati: la favoleggiata Sirena dei Titani. Dormiva come un piombo. Cirocco stava smaltendo tre giorni di bevute.

Gaby non riuscì a nascondere il disgusto. Provò per qualche istante la tentazione di andarsene, ma infine si rasserenò. Un fantasma del vecchio affetto ritornava talvolta in lei, quando Cirocco era in quelle condizioni. Le scostò i capelli dagli occhi, e come risposta Cirocco si mise a russare. Mosse le braccia, cercando la coperta, e scivolò giù dal dondolo.

Gaby fece il giro del dondolo e lo afferrò per il fondo. Poi fece forza e, tra il cigolio delle catene di sospensione, il suo ex ufficiale superiore rotolò a terra con un tonfo sordo.

11

Il Festival Rosso

Secondo l’opinione di molti, Iperione era la più bella delle dodici regioni di Gea. Ma, a dire il vero, pochi avevano viaggiato a sufficienza per fare un vero confronto.

A ogni modo, Iperione era un bel paese: dolce, fertile, immerso in un eterno pomeriggio bucolico. Non c’erano montagne frastagliate, ma solo una grande abbondanza di fiumi. (Iperione veniva sempre considerato maschile, anche se nessuna delle regioni di Gea poteva dirsi maschio o femmina. Il loro nome derivava da quello dei titani della mitologia greca, i primi figli di Urano e Gea). C’era Ofione, largo e lento, e fangoso per gran parte del suo corso. In esso confluivano nove grandi affluenti, che prendevano il nome dalle Muse. A nord e a sud il terreno saliva gradualmente, come in tutte le regioni di Gea, fino a terminare al piede di pareti di roccia alte tre chilometri. In cima a queste pareti c’erano delle strette strisce di terra, che venivano chiamati gli Altopiani e in cui si potevano trovare piante e animali che erano sempre gli stessi, fin dall’epoca della gioventù di Gea. Più avanti, il terreno continuava a sollevarsi, e infine non era più in grado di sostenere un fondo roccioso. Laggiù cominciava a vedersi il corpo nudo di Gea, che si sollevava fino a diventare verticale e a formare un arco che copriva la terra sottostante: un arco di materia traslucida che permetteva il passaggio della luce solare. A quell’altezza, l’aria non era fredda, ma le pareti sì. Lassù il vapore si condensava sotto forma di uno spesso strato di ghiaccio. Il ghiaccio si spezzava continuamente, cadeva sulle montagne degli altopiani, si scioglieva e formava cascate che precipitavano dalle alte pareti di roccia e proseguivano infine placidamente nei Fiumi delle Muse. Alla fine, come capitava a tutte le cose, convergevano nel flusso di Ofione, che tutto univa.

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