Posami a terra, cavallino a dondolo troppo cresciuto, cercò di dire Robin, ma la sua gola emise solo qualche odioso gorgoglio.
— Mi occuperò io di te — disse teneramente Oboe.
Quando Oboe se la mise sulla groppa, in Robin era scesa un calma carica di minacce. Rinuncia alla lotta, sottomettiti, aspetta che finisca, e alla fine avrai la tua rivincita. Adesso non puoi fare niente, ma in seguito potrai fargliela pagare.
Oboe fece ritorno con un catino di acqua tiepida. Lavò Robin e la asciugò, la tenne sollevata come una bambola di pezza con i circuiti guasti e le infilò la camicia da notte ricamata. Poi la sollevò con una sola mano, come se il suo peso non superasse quello di un foglio di carta, e la fece scivolare nel sacco a pelo. Infine glielo chiuse sul collo.
E cominciò a cantare.
Robin sentì come una sorta di nodo bruciante in fondo alla gola. La cosa la riempì di orrore. Venire presa, lavata, vestita, infilata a letto… era una terribile offesa alla sua dignità. Aveva il dovere di essere in collera. Di prepararsi gli insulti da rivolgere a quella creatura non appena riacquistata la padronanza del suo corpo. Invece, si sentiva solo soffocare da un’emozione da tempo scordata.
Mettersi a piangere sarebbe stato inconcepibile. Se ci si abbandonava al pianto, non ci si poteva mai più liberare dall’autocompassione. Era la sua più grande paura, talmente spaventosa che non riusciva neppure a pronunciarne il nome. C’erano state delle volte in cui, tutta sola, aveva pianto. Ma non lo avrebbe mai fatto in presenza di altre persone.
Eppure, in un certo senso, lei era sola. La stessa Oboe l’aveva detto. Le regole umane, i concetti della Congrega, laggiù non erano validi. E poi non si trattava neppure delle regole umane: la Congrega non le aveva mai chiesto di non piangere. Glielo chiedeva unicamente la disciplina che lei stessa si imponeva.
Sentì un pianto e capì che proveniva da lei. Dall’angolo degli occhi le scendevano le lacrime. Il nodo che aveva in gola non si lasciava inghiottire, e per questo doveva venire fuori in qualche altro modo.
Robin si arrese a quel nodo, e piangendo fra le braccia di Oboe finì per addormentarsi.
Chris sedeva sul sacco a pelo, in quella maledetta penombra, e tremava. Da ore gli pareva imminente un attacco, che però si rifiutava di sopraggiungere. O era già sopraggiunto? Come aveva detto a Gaby, lui era il meno adatto a giudicare se si trovava in una delle sue fughe psicologiche. Comunque, questo non era del tutto vero. Se avesse avuto un attacco, lui non se ne sarebbe reso conto, alla sua mente sarebbe parso del tutto ragionevole funzionare con gli ingranaggi fuori posto e i pistoni sbiellati, ma non se ne sarebbe stato lì a sudare.
Si disse che era colpa della luce e della pioggia che batteva sulla tenda. La luce era del tutto fasulla. A giudicare da quella che riusciva a penetrare all’interno della tenda, o si era di prima mattina, ed era quindi il momento di alzarsi, o si era al tramonto, e quindi era troppo presto per andare a dormire. E non si decideva mai a diventare una luce più decente.
Nonostante la pioggia, era incredibile la quantità di cose che riusciva a udire. C’erano i tranquilli canti dei titanidi e gli scoppiettii del fuoco. Qualcuno si era avvicinato alla sua tenda, si era fermato per un istante, gettando su di essa la sua ombra, e poi se n’era andato. Più tardi aveva sentito voci di gente che conversava e rumore di gente che si allontanava. Molto più tardi, qualcuno aveva fatto ritorno.
E adesso c’era qualcuno che si avvicinava. Neppure la Maga avrebbe potuto gettare un’ombra così grande.
— Si può?
— Entra, Valiha.
Aveva con sé un asciugamano, e mentre infilava nella tenda la testa e il torso per tenerla aperta, se ne servì per pulirsi gli zoccoli dal fango, prima di posarli sulla tela che costituiva il pavimento della tenda. Ripeté poi l’operazione per le zampe di dietro, piegandosi e torcendosi; pareva un cane intento a grattarsi le orecchie, ma nel suo gesto non c’era niente di goffo. Indossava un mantello di tela cerata, color viola, che pareva una piccola tenda. Se lo tolse e lo appese a un portamantelli accanto all’entrata. Per tutto il tempo richiesto da queste operazioni, Chris continuò a chiedersi il motivo di quella visita.
— Ti spiace se accendo la lucerna?
— Fai pure.
La tenda era di dimensione adatta ai titanidi, ossia Valiha poteva stare in piedi al suo interno e aveva ancora lo spazio sufficiente per girare su se stessa. La lucerna gettò strane ombre di lei, finché Valiha non la appese al palo e non si sedette a terra a gambe incrociate.
— Non posso fermarmi a lungo — disse. — Anzi, forse venire qui è uno sbaglio. Comunque, sono venuta.
Se intendeva confonderlo, c’era riuscita perfettamente. Si toccava nervosamente con le mani il bordo del marsupio, e quello spettacolo metteva leggermente in imbarazzo Chris. Infilava i pollici all’interno e poi lo tirava come se fosse stato un paio di calzoncini da bagno con la cintura elastica.
— Sono rimasta sconvolta nel sapere che tu… davvero non ricordavi le cento riv passate insieme, quando ti ho trovato mentre vagavi sotto la Scala di Cirocco, dopo il Grande Salto.
— Quanto sono, cento riv?
— Poco più di quattro giorni terrestri.
— È un periodo alquanto lungo. E ci siamo divertiti?
Lei lo fissò per un istante, poi riprese a torcere il bordo del marsupio.
— Io sì. E dicevi che ti piaceva. Ma quello che volevo dirti adesso, è che non devi pensare che ti considerassi solo un portafortuna, come ho detto quando hai ripreso i sensi.
Chris alzò le spalle. — Anche se fosse vero, non mi darebbe nessun fastidio. E se ti ho portato fortuna, ne sono lietissimo.
— Non si tratta di questo. — Si morse il labbro inferiore, e Chris le vide spuntare una lacrimuccia, che subito scomparve. — Che Gea mi maledica — gemette. — Non riesco a dirlo nel modo giusto. Anzi, non so neppure cosa dovrei dirti, tranne che ringraziarti. Anche se non ricordi niente. — Infilò una mano nella borsa e prese una cosa che poi gli mise tra le mani.
— È per te — disse. Poi si alzò in piedi e scomparve. Prima, praticamente, che Chris riuscisse a capire.
Aprì la mano e fissò l’uovo titanide. Il colore dominante era il giallo, come sulla stessa Valiha, ma c’era anche una serie di anse nere. Sulla sua dura superficie c’era una scritta, in piccoli, tremolanti caratteri terrestri:
Valiha (Assolo Eolio) Madrigale: Fortunato Major
26 Gigariv, 97618 685 Riv (2100 d.C.)
"Gea Non Spiega Mai Perché Ruota"
19
Eterna giovinezza
— Se temi una causa per riconoscimento della paternità — disse Cirocco — non devi preoccupartene. I titanidi non ragionano in questo modo.
— Non volevo dire… Forse mi sono spiegato male.
Chris era salito sulla canoa di Cirocco. Sedeva nel centro, mentre la Maga stava a prua, con la testa appoggiata a un cuscino. Aveva grosse borse sotto gli occhi, e aveva la faccia pallida e tirata. Comunque, era notevolmente migliorata, rispetto a poche ora prima. Chris aveva scelto di viaggiare con Cirocco perché aveva intenzione di chiederle informazioni sui rapporti sessuali tra umani e titanidi, ma poi aveva cambiato idea quando aveva visto che il discorso non le piaceva.
Chris non era stato l’unico che avesse cambiato barca. Gaby era salita su quella di Robin e Oboe, mentre Valiha e Salterio erano in testa alla squadra con le loro due canoe.
Erano passati sotto la Scala di Cirocco, esperienza di cui Chris avrebbe fatto volentieri a meno. Il grande cavo sospeso sopra la testa gli aveva richiamato alla mente il Golden Gate e quel giorno di vento in cui Dulcinea l’aveva incamminato lungo il sentiero che conduceva a Gea. La Scala di Cirocco assomigliava a un cavo del ponte. Ma al posto del pilone c’era solo la bocca spalancata, conica, del Raggio di Rea, che si perdeva all’infinito, portando con sé il cavo che lassù diventava invisibile.