Gaby aveva previsto il balzo all’indietro ed era pronta a sfruttarlo, ma i riflessi di Robin furono più svelti, e Gaby si prese un calcio sul fianco. La rallentò quanto bastava a Robin per eseguire la sua mossa a sorpresa.
Si voltò dall’altra parte e corse via.
Gaby le corse dietro, ma non era una tattica a cui fosse abituata. Si aspettava qualche trucco, e perciò la rincorse più lentamente di quanto avrebbe potuto. Di conseguenza, Robin riuscì presto a distanziarla. Si fermò quando la distanza tra loro salì a dieci metri, e, quando si voltò, aveva entrambi gli occhi bene aperti.
Gaby pensava che probabilmente vedeva meno bene di prima, ma la pioggia le aveva tolto gran parte dello svantaggio. Gaby rimase colpita dalle azioni di Robin. Quando tornò ad avvicinarsi alla ragazza, lo fece con grande cautela.
Fu come se fossero ripartite dall’inizio. Gaby si sentiva impacciata, perché non aveva mai combattuto in quella maniera, in precedenza. Aveva imparato la lotta molto tempo prima, e anche se le sue conoscenze non erano certo arrugginite, faticava a ricordare cosa avesse imparato in quelle lezioni. Negli ultimi ottant’anni aveva sempre combattuto seriamente, nel senso che quei combattimenti potevano essere mortali. L’impostazione della lotta non era mai più stata quella di una lezione. Robin, invece, doveva avere una grande esperienza di quel tipo di lotta. Dato il caratterino della ragazza, Gaby era disposta a metterci la mano sul fuoco.
Non c’era motivo perché la lotta durasse più di qualche minuto, anche lottando corpo a corpo. Ma Gaby ne dubitava. Quando si avvicinò all’avversaria, decise di rischiare il tutto per tutto; non cercò di colpire con calci o pugni, e in tal modo lasciò a Robin un varco, perché era certa di riuscire a bloccarla in tempo, se lei ne avesse approfittato. Invece, Robin non cercò di approfittarne, e finirono per afferrarsi per le braccia, con un presa di lotta greco-romana. Senza bisogno di dirlo a parole, questo costituiva una sorta di accordo tra loro, e Gaby si ripromise di rispettarlo. Accettando che la lotta si ritualizzasse al di là delle regole pattuite, Robin in sostanza le diceva che non voleva che si facessero male. Questo significava che giudicava Gaby un’avversaria onorevole.
Occorse un certo tempo. Gaby comprese che, accettando quel tipo di lotta, rinunciava a qualsiasi vantaggio. Ma la cosa non aveva importanza. Si aspettava di perdere, ma questo non le impedì di offrire tutta la resistenza di cui era capace. Robin si trovò in un vero combattimento, e non in un gioco.
— Basta! — gridò Gaby.
Robin le lasciò il braccio, e anche la fitta di dolore si allontanò progressivamente dalla spalla di Gaby. Sollevò la faccia dal fango e, muovendosi con cautela, riuscì a mettersi su un fianco. Cominciò a sperare di poter anche riprendere l’uso del braccio, un giorno o l’altro.
Sollevando gli occhi, vide che Robin sedeva a testa bassa, e che soffiava come un mantice.
— Rivincita? — disse Gaby.
Robin si mise a ridere. Senza alcun imbarazzo.
— Se tu lo dicessi sul serio — riuscì infine a dire — ti metterei le manette e ti ficcherei in una gabbia. Ma probabilmente riusciresti a rosicchiare le sbarre.
— Due o tre volte te la sei vista brutta, eh?
— Non ti dico quanto.
Gaby si chiese perché si sentisse così bene, considerato che aveva tutto il corpo dolorante. Doveva essere l’euforia del maratoneta, il rilassamento completo che sopraggiunge dopo essersi sforzati allo spasimo. Comunque, non aveva subito danni. Qualche livido, e la spalla le avrebbe fatto male per qualche giorno, ma l’indolenzimento che provava era dovuto solo alla stanchezza, non ai cazzotti.
Robin si alzò lentamente in piedi. Le tese la mano.
— Andiamo al fiume. Hai bisogno di una bella lavata.
Aiutata da Robin, Gaby riuscì a rialzarsi. Robin zoppicava leggermente, e neppure Gaby si sentiva molto sicura delle sue gambe, e perciò furono costrette a sostenersi a vicenda nel corso dei primi, faticosi, cento o duecento metri.
— Volevo chiederti davvero il significato del tatuaggio — disse Gaby, quando raggiunsero il fiume.
Robin si passò le mani sull’addome, ma non riuscì a pulirsi. — Adesso non si vede — disse. — Troppo fango. Cosa ne pensi?
Gaby stava per fare qualche commento educato e non impegnativo, ma poi cambiò idea.
— È una delle cose più orribili che abbia visto.
— Esattamente. È fonte di grande labra.
— Me lo spieghi? Tutte le streghe si sfigurano così?
Scesero cautamente nell’acqua del fiume e si sedettero sulle pietre. La pioggia era un po’ cessata, e si era ridotta a una fine nebbia, mentre a nord, da un varco tra le nuvole, giungeva nuovamente un po’ di luce.
Gaby non vedeva più il tatuaggio, ma non riusciva a toglierselo dalla mente. Era grottesco, agghiacciante. Assomigliava a un disegno anatomico, e mostrava i vari strati di tessuto, incisi e tirati indietro in modo da mettere a nudo gli organi sottostanti. Le ovaie parevano grappoli marci, pieni di vermi. Le tube erano annodate varie volte. Ma il peggiore era l’utero: era gonfio, fuoriusciva dall’«incisione» e perdeva gocce di sangue da una lacerazione. Era chiaro che la ferita era causata dall’interno, come se qualcosa si facesse strada per uscire. E della creatura ancora nascosta là dentro si scorgevano soltanto gli occhi, rossi e animaleschi.
Quando andarono a riprendere i vestiti, riprese a piovere forte. Gaby non si preoccupò quando vide che Robin inciampava e cadeva; il terreno era scivoloso, e nella lotta si era leggermente storta una caviglia. Ma alla quarta caduta di Robin divenne chiaro che c’era qualcosa che non andava. Barcollava, tremava e stringeva i denti.
— Ti aiuto io — disse Gaby, dopo un poco.
— No, grazie, ce la faccio da sola.
Un minuto più tardi, cadde a terra e non si rialzò più. Il suo corpo tremava, ma in modo ritmico e lento, senza scosse violente. Gli occhi erano fissi. Gaby si inginocchiò accanto a lei e le mise un braccio dietro le ginocchia, l’altro dietro le spalle, e fece per sollevarla.
— Nnnno… Nnno.
— Cosa? Ragiona, non posso lasciarti sotto la pioggia.
— Sssii… Sssii. Lllasciami…
Era un vero problema. Gaby la lasciò a terra, ma le rimase accanto, perplessa. Guardò in direzione del campo, che ormai non era lontano, e poi tornò a guardare Robin. Era in cima a una bassa collinetta, e non c’era il pericolo che l’acqua salisse. E neppure che Robin affogasse a causa della pioggia. In quella parte di Iperione non c’erano predatori che le potessero dare fastidio, anche se qualche piccolo animale poteva morsicarla.
Si ripromise di chiarire in seguito l’intera faccenda. Dovevano trovare qualche tipo di accordo, perché Gaby non era disposta a rifarlo. Ma per adesso si voltò dall’altra parte e fece ritorno al campo.
Oboe si alzò in piedi, preoccupata, quando vide che Gaby ritornava da sola. Gaby sapeva che la titanide le aveva viste allontanarsi insieme; probabilmente, sapeva cosa erano andate a fare, laggiù nella pioggia. Prima che traesse le conclusioni sbagliate, Gaby si affrettò a rassicurarla.
— Robin sta bene. Almeno, mi pare. Ha un attacco e non vuole essere aiutata. Potremo andare a riprenderla quando sarà il momento di partire. Dove vai?
— A prenderla, naturalmente, per riportarla nella tenda.
— Non credo che lo voglia.
Oboe pareva al massimo dell’irritazione; Gaby non aveva mai visto un titanide così irritato.
— Voi umani, e i vostri sciocchi giochi — disse, sbuffando in segno di insofferenza. — Io non sono tenuta a rispettare le regole di nessun gioco: né le sue, né le tue.
Robin scorse la figura di Oboe che si avvicinava in mezzo alla pioggia scrosciante. Maledizione, Gaby le aveva spedito la cavalleria; era ovvio.
— Sono venuta per conto mio — disse la titanide, sollevando Robin dal fango. — Qualsiasi concetto umano tu intenda difendere attraverso questo folle gesto, il concetto rimane intatto, perché non sei portata via da un essere umano.