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— E io ti accompagnerò — disse Valiha.

— Perché fate tante storie? — volle sapere Gaby. — È stato uno scherzo innocente. A volte, voialtri mi sembrate troppo seri. Sono lieta di vedere che apprezzate anche gli scherzi.

— Non ce l’abbiamo con gli scherzi — disse Oboe. — Un bello scherzo piace a tutti. Ma questo è… di cattivo gusto.

Anche se non era invecchiata, in Gaby qualcosa era cambiato con il passare degli anni. Dormiva meno di un tempo. Di solito, due ore su venti le erano sufficienti. Spesso rimaneva sveglia per sessanta e perfino per settanta rivoluzioni senza difficoltà.

I titanidi dicevano che diventava progressivamente simile a loro, e che presto avrebbe perso del tutto quell’antipatica abitudine del sonno.

Qualunque fosse il motivo, si era detta che per quei primi giorni poteva evitare di dormire fino al successivo accampamento. Si allontanò da sola, camminando per qualche tempo sulla riva del fiume e, quando fece ritorno, nel campo si sentiva solo la bassa cantilena dei titanidi in fase di riposo. Erano stesi attorno al fuoco, come quattro enormi sculture buffe: con le mani facevano dei lavoretti non impegnativi, e la loro mente seguiva chissà quali pensieri. Valiha era stesa sul fianco, appoggiata a un gomito. Oboe era stesa sulla schiena, e adesso il torso umano era allineato con il resto del corpo; aveva le gambe in alto, e le teneva ripiegate come un cagnolino che volesse farsi grattare la pancia. Di tutte le posizioni assunte dai titanidi, Gaby aveva sempre pensato che quella fosse la più buffa.

A una certa distanza dal fuoco c’erano quattro tende, in mezzo agli alberi. Passò davanti alla sua, che naturalmente era vuota. Nella seconda c’era Cirocco, che dormiva un sonno agitato: aveva in corpo due robuste dosi di liquore e un lago di caffè. Gaby sapeva che quello che la agitava non era il caffè.

Si fermò davanti alla tenda di Chris, e si disse che dare un’occhiata all’interno sarebbe stata solamente pura e semplice curiosità. Non aveva niente da dire a Chris. E dunque rimaneva soltanto l’ultima tenda. Attese per alcuni minuti, finché non sentì giungere un fruscio dall’interno.

— Posso parlarti un momento?

— Chi è? Gaby?

— Sì.

— Penso di sì. Entra.

Robin era seduta sul sacco a pelo, che era steso sopra un mucchio di muschio portato da Oboe. Gaby accese la lampada appesa al bastone della tenda, e vide che Robin la fissava con attenzione, ma senza particolare avversione. Indossava gli abiti che aveva portato per l’intera giornata.

— Ti ho disturbato?

Robin scosse la testa. — Non riesco a dormire — confessò. — È la prima volta, in tutta la mia vita, che non dormo in un letto.

— Oboe sarà lieta di procurarti dell’altro muschio.

— Non servirebbe. Devo abituarmi, credo.

— Potresti metterti qualcosa di più leggero.

Robin le mostrò l’elegantissima camicia da notte che Oboe le aveva preparato. — Non è il mio genere — disse. — Come si può dormire in una camicia da notte come questa? Starebbe bene in una vetrina.

Gaby rise, poi appoggiò a terra un ginocchio e si aggiustò uno stivale. Quando sollevò nuovamente lo sguardo, vide che Robin la guardava. Meglio affrontare l’argomento, pensò. Sa che non sei entrata per portarle gli asciugamani puliti.

— Credo di doverti delle scuse, per prima cosa — disse. — E quindi ti faccio le mie scuse. Mi spiace di averlo fatto, non avevo giustificazione.

— Accetto le scuse — disse Robin. — Ma l’avvertimento resta valido.

— Giusto. Capisco. — Gaby sceglieva le parole con la massima attenzione possibile. Occorreva qualcosa di più di una scusa, ma non voleva assumere toni di superiorità.

— Quello che ho fatto è sbagliato sia nella tua cultura che nella mia — disse. — Le scuse sono per avere violato il mio codice di comportamento. Ma mi dicevi che voi streghe avete un sistema di doveri, non ricordo più la parola.

— Labra — disse Robin.

— Già. Non pretendo di capirne tutte le sfumature. Credo di averlo violato, anche se non so come. Perciò devo chiederti un aiuto. C’è un modo per risolvere la questione tra noi? Posso fare qualcosa per cancellare l’accaduto?

Robin aggrottava la fronte. — Non vorrai…

— No, sono disposta a fare qualsiasi cosa. C’è forse un modo?

— Sì. Ma…

— Quale?

Robin sollevò le mani. — Come in tutte le culture primitive, credo. Un duello. Tra noi.

— Un duello di che tipo? — chiese Gaby. — A morte?

— Non siamo primitivi fino a questo punto. Lo scopo è la riconciliazione, non l’omicidio. Se pensassi di doverti uccidere, lo farei, sperando di essere aiutata in tribunale dalle sorelle. Un combattimento a mani nude.

Gaby rifletté. — E se vinco io?

Robin sospirò, esasperata.

— Non hai capito. L’importante non è vincere; almeno, non nel senso che pensi tu. Non dobbiamo cercare di dimostrare chi è la migliore. La lotta servirebbe soltanto a far vedere chi è più forte e più veloce, e questo non ha niente a che fare con l’onore. Ma, accettando di lottare con la clausola di non ucciderci, ciascuna di noi riconosce che l’altra è un avversario meritevole, e dunque onorevole. — S’interruppe, e per un attimo fece una faccia estremamente perfida. — Non preoccupartene — aggiunse. — Non vincerai…

Gaby le sorrise a sua volta, e pensò nuovamente che quella strana ragazzina le era davvero simpatica. Più che mai, desiderava averla dalla propria parte, quando fossero iniziati i pericoli.

— Allora? Sono un’avversaria meritevole?

Robin attese qualche istante, prima di rispondere. Da quando aveva proposto la lotta, Gaby si era accorta di un certo cambiamento in se stessa. Si chiese se Robin lo stesse prendendo in considerazione. Doveva lasciarla vincere? Poteva essere rischioso, se Robin l’avesse sospettata di lottare senza impegno. E se Robin avesse perso, avrebbe seppellito la scure di guerra? Gaby doveva basarsi sulla sua parola. Pensava di conoscere a sufficienza la piccola strega: il suo concetto di onore non le avrebbe permesso di suggerire la lotta, se non avesse pensato di mantenere i patti. Perciò doveva aspettarsi un combattimento serio, e probabilmente anche qualche ammaccatura.

— Se è davvero questo che vuoi… — disse Robin.

Robin si toglieva i vestiti, e Gaby la imitò. Erano a mezzo chilometro dal fiume, e il fuoco del campo era una macchiolina di luce che si scorgeva a distanza, in mezzo alla pioggia. Il campo dove dovevano combattere era una bassa depressione fra due collinette. C’era dell’erba, ma il terreno era sufficientemente compatto: terra cotta dal calore, che cominciava a inumidirsi soltanto allora, dopo sei ore di pioggia continua. Comunque, c’era qualche difficoltà a muoversi. In certi punti c’erano delle pozzanghere e del fango.

Si misero una davanti all’altra, e Gaby valutò la sua avversaria. Erano pressappoco pari. Gaby aveva qualche centimetro di altezza e qualche chilo di più.

— Ci sono delle procedure da rispettare, dei rituali?

— Sì, ma si tratta di cose complicate, e per te non avrebbero significato; meglio lasciarle perdere. Abracadabra e salagazam, tu t’inchini a me e io mi inchino a te, e il rito è soddisfatto. Va bene?

— Ci sono delle regole?

— Come? Oh, credo di sì, non pensi? Ma non so fino a che punto tu conosci la lotta.

— So come uccidere una persona con le mani nude.

— Allora, diciamo niente colpi che causino danni permanenti all’avversario. Chi perde dovrà essere in grado di camminare, domani. A parte questo, tutto è permesso.

— Giusto, ma, prima di cominciare, mi incuriosiva il tatuaggio che hai sullo stomaco. Cosa significa? — Indicò il ventre di Robin.

Sarebbe andata meglio se Robin si fosse guardata la pancia invece di guardare la mano di Gaby, ma fu colta fuori guardia lo stesso, quando Gaby scalciò con il piede che aveva accuratamente infilato nel fango. Robin evitò il calcio, ma un mucchietto di fango la colpì sulla faccia, accecandole un occhio.

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