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Un pezzo di bravura

Non si trattava semplicemente di ammettere che Chris aveva ragione. Robin se ne era resa conto fin dall’inizio. Partire da sola per un viaggio come quello era stato uno sbaglio.

Cercò di muovere il braccio, e riuscì finalmente a muovere la punta di un dito. Trangugiò lentamente la saliva. Uno dei suoi timori era sempre stato quello di affogare nella propria saliva. E poteva succedere. Così come poteva succedere di peggio. Per esempio, poteva scoprire, una volta ripreso il controllo, di essersi rotta la schiena. In tal caso era destinata a rimanere laggiù, al buio, per l’eternità, e anche se gran parte del tempo l’avrebbe trascorsa nella pace dell’oblio, le prime settimane non promettevano niente di buono.

Oppure, mentre era immobile, l’Uccello della Notte poteva calare su di lei e… be’, fare quello che faceva alle vittime immobilizzate.

Si sforzò di girare gli occhi per controllare se davvero, come temeva, l’Uccello della Notte fosse posato su una stretta cornice di roccia, poco sopra di lei. Ma, ancora una volta, non riuscì a scorgerlo.

Per scacciarlo, ricordò, bisogna fischiare. E poi si disse che era ridicolo. Aveva quasi vent’anni, e dall’età di sei non aveva più avuto paura dell’Uccello della Notte. Tuttavia, se in quel momento fosse riuscita a gonfiare le gote, si sarebbe messa a zufolare come un canarino.

Sapeva che i suoni lontani da lei uditi erano quelli di Chris e Valiha, o lo scroscio di ruscelli lontani, ma la sua immaginazione continuava a presentarle l’immagine dell’Uccello della Notte. Sapeva anche che un simile animale non era mai esistito, né sulla Terra né laggiù, e che era solo una storia che si raccontavano tra loro le bambine. Ma la caratteristica dell’Uccello della Notte era appunto quella di non lasciarsi vedere. Volava con ali d’ombra, e assaliva alle spalle; cambiava dimensione e forma per adattarsi a qualsiasi area buia: dentro una galleria, sotto una cuccetta, in un angolo dimenticato. E la creatura che la inseguiva. … ammesso che ci fosse davvero… si comportava come l’Uccello della Notte. Non si lasciava vedere. Si udiva soltanto, di tanto in tanto, il rumore secco degli artigli, del becco che si chiudeva di scatto.

Aveva visto che nelle caverne c’erano molti altri animali, oltre a quelli che aveva già incontrato, e anche varie specie di piante. C’erano lucertole trasparenti come vetro, con un numero variabile di gambe, da due a varie centinaia. Amavano il caldo, e diventavano sempre più numerose, cosicché, al suo risveglio, la prima cosa da fare era quella di toglierle dal sacco a pelo. C’erano animali simili a stelle di mare, e chiocciole aventi le forme più strane, l’una diversa dall’altra come i fiocchi di neve. Una volta aveva visto un uccello lampada catturato, in volo, da un predatore invisibile, e un’altra volta aveva scorto quello che forse era un pezzo del corpo di Gea privo della copertura di roccia, o forse era una creatura al cui confronto una balenottera azzurra avrebbe fatto la figura di un pesciolino. Non seppe mai che cosa era: le uniche caratteristiche da lei notate furono che la superficie era tiepida, che aveva la consistenza della carne o della gommapiuma e che, fortunatamente, non si muoveva.

E se tutte quelle creature vivevano in una caverna che a una prima occhiata sembrava solo una sterile distesa di rocce, perché non poteva esserci anche l’Uccello della Notte?

Prima di muoversi, attese di riavere il pieno controllo del suo corpo, e poi risalì in cima alla scarpata lungo cui era rotolata quando le avevano ceduto le gambe. Uno dei suoi uccelli lampada era morto schiacciato perché la gabbia era finita sotto di lei, e l’altro stava per morire, ma faceva ancora un po’ di luce. Prima controllò il proprio corpo, poi l’equipaggiamento. Aveva male a un fianco, ma non le parve di avere costole rotte. Si era rotta un’unghia e aveva vari graffi, ma niente di più. Un controllo dell’equipaggiamento che aveva ancora con sé dopo averne eliminato varie parti le mostrò che non mancava niente.

Non contava più le volte in cui aveva evitato di stretta misura il pericolo: mani che scivolavano sulla corda, rocce che cadevano a poca distanza da lei, sabbie mobili che fortunatamente risultavano poco profonde, l’onda di piena phe si avventava lungo il letto di un ruscello poco prima che lei lo attraversasse. Un tempo, quando era a casa propria, il pericolo la esaltava. Ora non più.

Il viaggio le era parso facile, quando ne aveva parlato con Chris e Valiha. Attraversare la caverna dirigendosi sempre a est, fino a raggiungere Tea. Ma presto si era accorta che la caverna non seguiva una linea retta, se non in modo assai approssimativo. Inoltre non sapeva se rimaneva sempre allo stesso livello. Il viaggio era iniziato alla profondità di cinque chilometri sotto la superficie di Gea. Lo strato di rocce che ricoprivano la struttura esterna di Gea era spesso trenta chilometri. C’era tutto lo spazio perché la caverna passasse sotto la camera di Tea.

Due semplici strumenti avrebbero potuto risolvere questi problemi di orientamento. Su Gea, salendo si diventava più leggeri, mentre scendendo ci si appesantiva. La differenza veniva misurata da un semplice dinamometro: una molla, un peso in fondo, e una scala graduata. Quanto alla direzione, l’orologio giroscopico permetteva di determinarla perché si fermava quando il suo asse era nella direzione nord-sud. Ruotandolo di novanta gradi, dal senso in cui prendeva a girare si determinavano l’ovest e l’est. Ma Gaby e Cirocco non avevano previsto di scendere, e non avevano preso con sé il dinamometro. E l’orologio era rimasto con Cornamusa.

Aveva dovuto procedere a tentoni, ritornando infinite volte sui suoi passi, dopo avere esplorato corridoi promettenti che però terminavano in qualche distesa di roccia. E aveva dovuto cancellare ogni volta le indicazioni lasciate per Chris e Valiha per segnarne delle altre. Il suo timore era quello di muoversi in cerchio, e di dover vedere un giorno davanti a sé l’accampamento che aveva lasciato tanto tempo prima. Forse, si diceva ogni tanto, era meglio sedersi ad aspettare che i compagni la raggiungessero. Chissà se le gambe di Valiha erano guarite, chissà se era già nato il piccolo titanide? Sarebbe stato bello avere di nuovo compagnia. In tre avrebbero potuto cercare meglio la strada, e Chris avrebbe fatto la sua parte di esplorazione, eliminando parte del rischio.

E ogni volta che questi pensieri le si erano affacciati alla mente, si era rimessa in cammino, più decisa di prima. Se aveva perso l’illusione dell’intrepidezza, almeno le rimaneva l’ostinazione. E una volta accettata la paura, poteva affrontarla e vincerla.

Dopo un tempo incommensurabile, trovò davanti a sé una galleria simile a quella di cui si erano serviti per uscire dalla sala di Teti. Niente di particolare in questo: ne aveva già esplorato un centinaio, tutte uguali tra loro. Ma ormai si aspettava così poco, che ciò che vide alla fine della galleria fu più che una sorpresa. Per un attimo non riuscì a muoversi a causa dello stupore. L’aria aveva un odore pungente. Si guardò a destra e a sinistra, poi in basso, e vide un sottile strato di liquido chiaro. I suoi stivali fumavano.

Fece un balzo indietro, e si affrettò a toglierseli. Per poco non entrava nell’acido…

— Tea! — esclamò. E poi le venne in mente che poteva essere Teti, o Febe, e che lei non aveva modo di saperlo. Dal punto in cui era, il corridoio continuava ancora a lungo, e lontano si scorgeva solo una macchia di luce che doveva essere il cervello regionale.

— Tea, ti devo parlare!

Tese l’orecchio, controllando il livello dell’acido che copriva il pavimento, poco lontano da lei. Se il livello fosse salito, Robin avrebbe insegnato agli uccelli-lampada l’arte della fuga.

Ricordò che la voce di Crio era molto bassa; forse quella di Tea non poteva giungere fino a lei. Gridò di nuovo. Si era aspettata un mucchio di guai, ma non che il cervello fosse irraggiungibile.

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